Quelle: Il Manifesto | 22.12.2016
Libano. Viaggio tra i profughi siriani. Nella Valle della Bekaa e nella regione di Akkar, i rifugiati sono esposti allo sfruttamento, alle discriminazioni e ora anche alla violenza dei residenti libanesi. Ad aiutarli due ong italiane, Gvc e Terre des Hommes, e i ragazzi della Papa Giovanni XXIII
Michele Giorgio
Il taxi corre come la lingua del suo autista. Ali al Mallah è un fiume in piena. I profughi siriani sono il bersaglio. Le parole ricordano quelle che ripetono i leghisti nel nord-est italiano. «I siriani ci stanno rubando il lavoro» ci spiega mentre ad alta velocità andiamo da Sidone verso Beirut. «Quel ragazzino lì che vende fazzoletti di carta? È un siriano. Il garzone della panetteria? È un siriano. E quelli che portano quei sacchi? Tutti siriani, tutti siriani». Alza la voce al Mallah quando ci racconta del lavoro che avrebbe perduto a causa dei profughi siriani. «Fino a poco tempo fa ero un camionista, non un taxista, – premette – poi il proprietario della ditta di trasporti mi ha licenziato e con i 1.200 dollari del mio stipendio ha preso a nero due autisti siriani. Ormai (i profughi) ci sostituiscono in tutto e per tutto anche se la legge vieta loro di lavorare in Libano. A nero entrano ovunque. Li incontri pure nei cantieri edili, come ingegneri non più solo come manovali». Vero, falso? Di sicuro il taxista che ci porta a Beirut esprime la rabbia di una buona fetta di libanesi per la presenza di un milione e mezzo di profughi – tra quelli registrati e quelli “illegali” – giunti dalla Siria negli ultimi cinque anni. Un siriano ogni quattro libanesi, più o meno. Numeri che hanno quasi del tutto azzerato la solidarietà verso chi scappa dalle distruzioni, dai combattimenti e che, se cerca un lavoro, lo fa perchè non riesce, con il solo sussidio mensile delle Nazioni Unite, a sopravvivere.
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