Quelle: Il Fatto Quotidiano
Quando un anno fa, con Progetto Mediterranea, abbiamo navigato per le isole greche di levante, in Egeo, si parlava dei migranti tra Anatolia e Grecia come fenomeno insorgente ma circoscritto a un paio di isole. Ne avevano dato notizia due giornalisti occidentali in vacanza, ripresi dai media. Sotto elezioni in Grecia non giovava a nessuno parlarne ufficialmente. Ma da quel momento fu inevitabile.
Con Progetto Mediterranea ne ho incontrati a migliaia, di migranti, decine di migliaia, da Lesbos a Chios, a Leros, a Kalymnos, a Kos. Dovunque. Ho tirato loro una cima mentre arrivavano, li ho intervistati nel porto, rivelando come avvenisse il tragico passaggio del confine siriano, la polizia turca che li attendeva coi pullman, manco fossero tifosi in trasferta, per condurli tra le braccia degli scafisti a Izmir e su tutta la costa. Mille euro e poi ancora mille a testa, per due frontiere. Raccontai che in mare non c’era una motovedetta, non c’era la guardia costiera di nessun paese, non c’era la Marina Militare, nessun controllo. Nessuno impediva. Sembrava addirittura che si volesse favorire il flusso verso l’Europa di quello tsunami umano, per lo più di siriani, afgani, iracheni, pakistani. Non vedevamo un poliziotto greco per strada, nei porti. I profughi si imbarcavano regolarmente sui traghetti per Atene, biglietto alla mano, da dove risalivano per i Balcani verso Germania e Scandinavia. Raccontai in un articolo tutto questo.
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