08. März 2017 · Kommentare deaktiviert für „Donne migranti, in prima linea contro la violenza patriarcale“ · Kategorien: Italien · Tags: ,

Il Manifesto | 08.03.2017

Intervista. Francesca De Masi e Enrica Rigo, del movimento Non una di meno

Il movimento delle donne sciopera anche per la libertà delle migranti, contro gabbie e frontiere. Sul tema abbiamo incontrato Francesca De Masi e Enrica Rigo. La prima lavora nella cooperativa Be-Free, che gestisce diversi centri antiviolenza e case rifugio, e da anni è in prima linea nella tutela delle vittime di tratta. Rigo, docente universitaria e giurista, ha coordinato il tavolo su Femminismo e migrazioni nell’assemblea nazionale di Bologna. Ricorda, inoltre, che Roma Tre è l’ateneo al quale era iscritta Sara Di Pietrantonio, vittima di femminicidio a maggio 2016. L’impegno di Enrica come docente nel contrasto alla violenza parte anche da qui, con una serie di incontri, organizzati su questo tema, che si propongono di andare oltre la barriere disciplinari in cui spesso viene relegata la questione di genere.

Qual è la prospettiva da cui siete partite, il vostro punto di osservazione e di internità al movimento?

Entrambe siamo interne a questo movimento sin dal principio: sia per ciò che riguarda il contrasto alla violenza contro le tutte le donne, di cui i Cav sono presidio fondamentale; sia per ciò che riguarda le donne migranti, oggi vittime di una doppia violenza che spesso le colpisce sia in quanto donne sia in quanto migranti, come nel caso delle tratta a scopo di sfruttamento sessuale che è alimentata anche dalla chiusura dei confini e dalla difficoltà che incontrano le donne migranti nell’accesso ai diritti.

Cosa si è proposto il tavolo su Femminismi e migrazioni?

Oggi il femminismo deve mettere a critica il tema delle frontiere, i dispositivi di rimpatrio che colpiscono le donne e gli altri migranti, nonché deve ripensare i sistemi di accoglienza, che troppo spesso si muovono su un crinale ambiguo che limita la libertà delle donne migranti dietro l’ipocrisia della necessità di proteggerle. Proprio le donne migranti, con le loro lotte, che sono anche atti di insubordinazione contro i confini globali imposti dalle politiche nazionali ed europee, sono in prima linea contro la violenza patriarcale che le colpisce sia nei paesi da cui provengono sia in quelli di arrivo. Il punto del tavolo per l’8 marzo ha fatto proprie molte delle rivendicazioni che le migranti portano avanti da anni: da quella per un permesso di soggiorno incondizionato, e soprattutto svincolato da quello del marito o della famiglia, a quello dell’accesso alla cittadinanza per chi nasce o risiede sul territorio. Il tavolo ha poi proposto elaborazioni specifiche sul tema della violenza, come la rivendicazione della protezione internazionale per le donne che subiscono violenza in quanto donne o soggettività Lgbtqi, e la necessità di svincolare il permesso di soggiorno per protezione sociale per le vittime di tratta, per le vittime di reato e per le vittime di sfruttamento lavorativo, dalla denuncia penale e della narrazione della propria condizione solo come vittime. Il permesso di soggiorno, l’accesso ai diritti e alla cittadinanza sono strumenti essenziali per sottrarsi alla violenza e per creare le condizioni in cui è possibile lottare. Vogliamo ricordare la rivendicazione portata avanti dalle figlie e dai figli di donne migranti, nati in Italia o che hanno seguito qui i percorsi scolastici, per il riconoscimento della cittadinanza.

Come si evidenzia il tema nelle piazze e nel corteo?

Il percorso di Non una di meno, in diverse città, ha intersecato quello del primo marzo, che è la giornata delle lotte dei migranti. A Roma, proprio il primo marzo le strade del centro – del salotto buono di Roma – sono state invase da alcuni manifesti che denunciano le decisioni delle Commissioni Territoriali in materia d’asilo. I manifesti, che Non una di meno ha rilanciato come campagna sui social, riportavano gli stralci delle motivazioni in cui si può leggere, per esempio, che «un unico episodio di violenza sessuale» non è sufficiente a integrare i requisiti della protezione internazionale, o mostravano come le motivazioni delle Commissioni, spesso sommarie, mettano in dubbio la credibilità delle soggettività Lgbtqi. Sovente il Tribunale di Roma rovescia queste decisioni, ma nella maggior parte dei casi le donne non hanno accesso a una difesa adeguata. Le audizioni avvengono all’interno del Cie, un ambiente che non favorisce certo la possibilità di narrare liberamente la propria storia, o di avvalersi di una difesa legale qualificata.

Un Piano femminista contro la violenza: con quali contenuti rispetto a quello che si discute nelle istituzioni?

L’obbiettivo è quello di costruire un piano antiviolenza dal basso, che sia femminista. Per noi significa che deve tener conto delle pratiche di autodeterminazione e autonomia, che implementano il protagonismo delle donne, fuoriuscendo da un’ ottica di assistenzialismo e da una corrispondente ottica di vittimizzazione. Per i percorsi di fuoriuscita dalla violenza, l’obbiettivo deve essere che l’utenza diventi agente dei propri percorsi anche all’interno dei Cav e delle strutture di accoglienza. A Roma, esistono importanti esperienze di auto organizzazione che possono essere valorizzate. La violenza strutturale non si affronta con le politiche repressive e penali, ma con politiche sociali, di accesso al reddito e ai diritti. Questo è vero anche per temi sicuramente delicati e controversi, come quello della tratta a scopo di sfruttamento sessuale e lavorativo. L’attuale quadro normativo si muove sul binario privilegiato della repressione penale, a cui fa da contraltare l’accesso ai diritti solo per chi accetta di denunciare la propria condizione di vittima. Un percorso spesso inadeguato per chi è appena giunto in Italia, è magari passato dal Cie o nei percorsi emergenziali dell’accoglienza, e non ha avuto modo di elaborare la propria condizione. Il sistema dei confini e le attuali politiche sulle migrazioni sono, da questo punto di vista, complici dello sfruttamento sia sessuale che lavorativo. Uno sfruttamento che non riguarda solo chi non è formalmente cittadino, ma riguarda per esempio anche molte donne che provengono dai paesi dell’Unione europea.

Geraldina Colotti

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