18. Juli 2017 · Kommentare deaktiviert für „Ong e migranti, così si salvano 860 vite in mare“ · Kategorien: Italien, Mittelmeer, Video · Tags: , ,

Corriere della Sera | 17.07.2017

dalla nostra inviata a bordo di Aquarius Marta Serafini

Nato in mezzo al Mediterraneo, su un gommone di fronte alla Libia nella notte tra l’11 e il 12 luglio, mentre i leader europei discutevano dell’operazione Triton. Ci dovrebbe essere scritto questo sulla carta di identità di Christ. E ci dovrebbe essere scritto pure che lui e sua madre Constance, partita dal Camerun e arrivata in Libia attraverso il Niger dopo essere stata catturata dai trafficanti, sono stati salvati dagli uomini e dalle donne di Aquarius, la nave impiegata da Sos Mediterranee e Medici Senza Frontiere per i soccorsi dei migranti in mare.

Ma spiegare che mamma e bambino sono stati portati su per la scaletta mentre erano ancora attaccati dal cordone ombelicale non è facile come compilare una statistica o un documento. Così come non è semplice trovare le parole per descrivere gli occhi di Ali che, dopo essere caduto in mare dal gommone ed essersi salvato per miracolo, non ha mai smesso di piangere fino a quando non ha toccato terra.

In queste ore Christ, Constance e Ali non sono gli unici migranti ad essere stati raccolti. In 8 mila sono arrivati in Italia, un Paese già al limite per la capacità di accoglienza.

Questo è il diario di bordo dell’Aquarius su cui ci siamo imbarcati per otto giorni per assistere alle operazioni di salvataggio.

Giovedì 6 luglio, porto di Catania

Settantasette metri, fabbricazione tedesca, Aquarius batte bandiera di Gibilterra. Alle 11 iniziano le operazioni di carico sul molo. Tra il materiale imbarcato ci sono anche i kit di salvataggio dei migranti: un cambio vestiti, una bottiglietta di plastica per l’acqua, una coperta, del cibo compatto energetico e una salvietta di spugna. Si parte con il giro di saluti di chi ha finito il suo turno e chi invece è nuovo. A bordo ci sono persone provenienti da tutto il mondo e con le competenze più disparate, si va dal cuoco del Ghana, passando per il pescatore italiano fino all’ingegnere tedesco, il medico statunitense, l’ostetrica francese, il mediatore culturale  del Bangladesh. L’equipaggio è composto da tre squadre, quella di Sos Mediterranee che si occupa del soccorso, quello di Msf che offre assistenza medica e la crew marittima.
Una donna straniera arriva sul molo alla guida di un’auto di lusso e chiede informazioni sulla missione.

Venerdì 7 luglio, porto di Catania

«Tutti, su questa nave, devono essere in grado di salvare un vita». Craig Spencer, a capo del team medico di Medici Senza Frontiere, va dritto al punto prima di iniziare la lezione di rianimazione cardiopolmonare. Per dare il ritmo delle spinte sulla cassa toracica si usa la musica. Il pediatra Tim Harrison mostra la procedura per i bambini utilizzando un orsacchiotto. Poi arriva l’ordine: «tutti a bordo». Alle 19 spaccate Aquarius lascia la banchina, si parte per una nuova missione. Craig tira fuori la chitarra. I delfini passano a salutare mentre non fa nemmeno un cenno l’uomo della barca pilota che scorta la nave fuori porto.

Sabato 8 luglio, verso la zona di soccorso al limitare delle acque territoriali libiche (Sar Zone)

«Dobbiamo essere preparati anche in caso di attacco». Andrea Tsigkanas, greco, 33 anni, da cinque in mare e primo ufficiale della squadra marittima, mostra la stanza in cui nascondersi in caso di assalto da parte delle milizie libiche. All’interno, una riserva di cibo e di acqua per l’equipaggio, una volta entrati bisogna stare in silenzio e disattivare il Wi-Fi. Dopo che la porta è stata chiusa si può entrare solo se si conosce la parola d’ordine. «Se dovessimo trovarci in pericolo sarebbe l’unico modo per salvarci», sottolinea ancora Tsigkanas.

Nel pomeriggio il team di soccorso effettua un test in acqua. I due gommoni di salvataggio Rhib 1 e Rhib 2 vengono calati nelle acque calmissime del Mediterraneo. Si prova il recupero e il trasbordo da un gommone all’altro. La mediatrice culturale Sereina Eldad, che sa 5 lingue (francese, tedesco, inglese, arabo e spagnolo) e ne sta studiando altre due (ebraico e russo), se ne sta in piedi sulla prua del Rhib 2. In caso di soccorso sarà lei la prima che i migranti vedranno e sarà lei a parlare loro in inglese, in francese o in arabo. Poi mentre il sole infuoca l’orizzonte, sullo stesso ponte su cui poche ore dopo verranno caricati quasi un migliaio di migranti inizia la lezione di yoga.

Notte tra sabato e domenica 9 luglio, Sar Zone

Alle 2:32 Aquarius arriva nella Sar Zone, come viene chiamata l’area di soccorso di fronte alle acque territoriali libiche. Tutti dormono, sul ponte non c’è nessuno. C’è luna piena, fattore che scoraggia gli sbarchi perché facilita il compito della Guardia costiera libica cui Roma continua a chiedere di fermare le partenze. Scatta il livello 3 di sicurezza di Aquarius, quello più alto, che si adotta quando si naviga vicino alla Libia.

Domenica 9 e lunedì 10 luglio, Sar Zone tra Zuwarah e Tripoli

«Lo vedi quel puntino nero a sinistra dei palazzoni di Tripoli?». Alle 5:30 partono i turni di avvistamento che durano due ore l’uno. Sul ponte c’è Rocco Aiello del Rescue Team che è stato in mare sui pescherecci. «Monitoriamo con i binocoli e coi radar». Siamo a 20 miglia marine dalle coste libiche tra Zuwarah e Tripoli, nella fascia in cui di recente sono avvenuti la maggior parte dei naufragi e dei salvataggi. Le navi delle Ong non possono entrare nelle acque libiche e durante le operazioni di soccorso dovrebbero rimanere sul limitare delle 12 miglia, la linea che segna le acque territoriali. Quel confine però è un concetto relativo non delineato dal filo spinato o da un muro. Nessuna irregolarità dunque? A bordo dell’Aquarius assicurano che è nel loro interesse non varcare quel confine. «Significherebbe mettere a repentaglio l’imbarcazione», assicura il capitano Alexander Moroz, un bielorusso che è meglio non far arrabbiare.

I gommoni e le navi di legno partono da terra soprattutto di notte o all’alba, in media rimangono in acqua 10-12 ore prima che arrivino i soccorsi. «Ma ci sono centinaia di barconi che affondano senza che nessuno se ne accorga», sottolinea Marcella Kraay, olandese, 48 anni a capo della missione per Medici Senza Frontiere. I gommoni bianchi, di bassa qualità, vengono rinforzati dai trafficanti nella chiglia con almeno quattro tavole di legno, fissate con bulloni enormi che luccicano al sole. Una trappola mortale: quando il moto ondoso spezza le assi i migranti ci rimangono incastrati in mezzo. All’interno delle imbarcazioni, una volta finiti i soccorsi, si trova di tutto: vestiti, bottiglie di plastica, feci, urine.

Alle 8 scatta l’allerta. Il puntino nero non è un’imbarcazione di pescatori. Sono migranti. La Vos Prudence e Aquarius iniziano a coprire lo stesso tratto di costa, la Vos Prudence è più vicina alla costa. In zona c’è anche la nave del Moas, la Phoenix. Saranno loro oggi i protagonisti del salvataggio. Vos Prudence e Aquarius stanno di supporto. C’è un po’ di delusione, nonostante siano state salvate 258 vite umane. «Ma oggi non è ancora il nostro turno».

Durante i salvataggi le Ong non si coordinano tra loro, almeno formalmente. Ognuno vuole portare a casa il più alto numero di migranti possibile perché raccogliere fondi per le missioni sta diventando sempre più difficile mentre infuria la polemica. In tutte le operazioni di salvataggio il coordinamento è ad opera dalla Capitaneria Generale di Roma (MRCC) che può anche indicare un trasbordo in mare da un’altra nave, compresa una nave di Frontex.

Anche la decisione del porto di rientro spetta a Roma. Tutto secondo le regole, dunque. Ma secondo il nuovo codice di condotta delle Ong chiesto dall’Italia all’Unione europea, alcune di queste norme sono cambiate, in testa il divieto di trasbordo da un’imbarcazione all’altra e l’obbligo per gli equipaggi di accettare a bordo ispezioni di polizia. L’obiettivo è limitare il numero di partenze, cresciuto nell’ultimo anno del 21 per cento.  Ma anche ridimensionare il ruolo delle organizzazioni non governative sempre più attive nei salvataggi (solo su Aquarius dall’inizio dell’anno sono state tratte in salvo 9925 persone), considerato un fattore di crescita negli sbarchi. «Voi italiani state facendo molto, è giusto che diciate basta. Ma la maggior parte di quelle regole noi le rispettiamo già, quindi non cambia granché rispetto a prima», continua Kraay. Salvare chi si mette in mare però non basta. Mentre i migranti salgono a bordo di Phoenix, all’orizzonte sfreccia una lancia bianca proveniente dalla Libia che è venuta a recuperarsi il gommone e il motore che non sono stati affondati. «Facile che siano i trafficanti», dice qualcuno sul ponte.

Per oggi il lavoro di Aquarius è finito e Crabi del Ghana, che sa 3 lingue e che dice «alla grande» in un italiano perfetto, annuncia che la cena è pronta.

Martedì 11 luglio – Sar Zone tra Tripoli e Sabratha

Sono le 6:30 del mattino quando sul ponte di Aquarius scatta l’allerta. Nessuno si fermerà per le prossime 15-18 ore. Non ci sarà altra priorità che il salvataggio. Ci si dà il cambio solo per bere dell’acqua o andare in bagno.  Al largo di Tripoli ci sono parecchie imbarcazioni non identificate. Tanti punti neri all’orizzonte.

Verso le 10.30 arriva la luce verde dal MRCC. A scrutare l’orizzonte dal ponte di comando sembra di avere di fronte una battaglia navale. In mare ci sono la Vos Prudence di Medici Senza Frontiere, la Vos Hestia di Save the Children, la Diciotti della Guardia Costiera italiana, la nave della ong spagnola Proactiva, la Iuventa della ong tedesca Jugend Rettet, la Minden della ong tedesca Lifeboat Project.

Aquarius di Medici Senza Frontiere e Sos Mediterranee sarà la nave che imbarcherà più migranti. «Sono momenti concitati e le comunicazioni via radio non sono sempre semplici», sottolinea Haucke Mack, 57 anni, tedesco, a capo della missione per Sos Mediterranee, mentre sul ponte di comando il capitano non perde di vista per un secondo il radar.

Nessun segnale viene scambiato con i trafficanti. Ma per chi sta a terra è facile vedere le navi di soccorso: basta usare applicazioni come Vessel Finder  Aquarius rimane sempre con il transponder acceso.

Il primo Rhib scende in acqua per caricare le donne e i bambini. C’è Salimah dalla Nigeria che si stringe al seno un bambino di otto mesi fasciato in una tutina rosa, recuperata chissà dove. Poi arriva il Rhib 2 con a bordo mamma e Christ, nato da poche ore e ancora attaccato al cordone ombelicale. Mentre Alessandro Porro e Svenja Klotscher del Rescue Team li tirano su per la scaletta, sul ponte cala il silenzio. E’ una scena surreale. Difficile trattenere le lacrime. «Poteva rompersi la placenta da un momento all’altro e potevano morire entrambi», spiegherà ore più tardi l’ostetrica Alice Gautreau. L’emozione però può durare pochi minuti, non ci sono solo Christ e la sua mamma da tirare su. Bisogna andare avanti.

Quando uno dei Rhib su cui siamo a bordo si avvicina ad un gommone, i migranti iniziano ad agitarsi, vogliono togliersi da quella trappola. Cinque cadono in mare. Sembra la fine. E invece no, tutti riescono a risalire. Ali, un ragazzone del Camerun è tra loro. «Your are safe now, sei in salvo», gli ripetono gli uomini della squadra di soccorso cercando il contatto con i suoi occhi per calmarlo. Ma lui non smetterà mai di piangere per le cinque ore successive.

I Rhib vanno avanti e indietro senza sosta. C’è giusto il tempo di una sigaretta in mezzo al mare mentre si discute con la Guardia Costiera su chi deve salvare chi. «Welcome on board, benvenuti a bordo». Marcella li accoglie uno per uno i migranti, stringe loro la mano, li guarda negli occhi e sorride mentre ne approfitta per controllare che non abbiano armi o che non siano in stato di choc. Qualcuno prega, qualcuno piange, altri ridono. Ma tutti, nessuno escluso, hanno negli occhi il terrore della morte.  In pochi hanno oggetti con sé. A parte Ambar del Bangladesh che stringe al petto una borsa di plastica come se fosse il bene più prezioso  del mondo.

Steffen Burk, addetto al triage, annusa i loro vestiti per controllare che non abbiano addosso tracce di benzina e per evitare che prendano fuoco. Quando sbarcano, in molti hanno ferite profonde, soprattutto le donne che durante la traversata sono state al centro del gommone: il gasolio mischiato all’acqua del mare salata ha piagato la loro pelle come un acido.  A chi necessita di assistenza medica e ai minori non accompagnati viene messo un braccialetto particolare. Le donne vengono separate dagli uomini.

«Andiamo in Italia vero? Me lo hanno promesso in Libia», chiede Geraldine mentre si toglie gli abiti zuppi di acqua e cerca di salvare il suo reggiseno di raso rosa.

All’orizzonte intanto si alzano le colonne di fumo delle imbarcazioni di legno bruciate. Oggi i trafficanti in zona non si vedono, la presenza della Guardia Costiera deve averli scoraggiati. Anche il team di Aquarius affonda un gommone dopo che Stephane Broc’h del team di salvataggio lo ha marchiato con una sigla saltando fuori bordo poco prima che la plastica bianca inizi ad affondare.

Mercoledì e Giovedì 12 e 13 luglio, verso Brindisi

Alla fine del meeting del mattino arriva la risposta del MRCC di Roma. «Si sbarca a Brindisi». Vuol dire un giorno di navigazione in più rispetto alla Sicilia. Missione non facile, se si considera che a bordo ci sono 860 persone provenienti da almeno dieci Paesi diversi cui va distribuito da mangiare due volte al giorno.

Martin Traminiau, responsabile della logistica, non smette un attimo di correre, perde la voce tanto grida ai migranti di stare calmi.  Ci sono persone stese ovunque, anche dentro le scialuppe di salvataggio. Sul ponte i momenti di tensione si alternano a quelli delle relax. Ogni tanto i brutti ricordi prendono il sopravvento. «Sono rimasta chiusa in una prigione in Libia per tre mesi», racconta una donna nigeriana stringendosi nella coperta di poliestere. «Ci hanno torturato con i cavi elettrici attaccati al seno per farci chiamare a casa e chiedere i soldi alle nostre famiglie», spiega un’altra.

«Ma’am quando arrivo voglio tornare a fare la hair stylist». Il racconto dei mesi precedenti alla traversata è quasi sempre lo stesso per la maggior parte delle ragazze. Gli Asma Boys, i trafficanti arabi, catturano le donne che arrivano dal Centro Africa, le rinchiudono nei centri di detenzione, le massacrano e le costringono a chiamare casa per farsi mandare i soldi del riscatto. Poi le caricano sui gommoni per mandarle in Italia, dove ad aspettarle c’è un’altra mafia, quella nigeriana. Ma loro molto spesso non lo sanno nemmeno. La stessa cosa accade agli uomini che finiranno schiavi nei campi a raccogliere pomodori per un euro all’ora

Aquarius passa vicino a Malta. Tra le donne qualche volta si litiga.  «Non ci voglio stare con quelle, puzzano», si lamenta Meriem, scappata dal Marocco insieme alla sorella e al fidanzato, indicando le donne nigeriane. Lo stesso succede tra gli uomini.  «Vaffanculo, non voglio dormire vicino a uno che fino a pochi giorni fa mi massacrava», grida un ragazzo del Ghana indicando un arabo. Molti uomini hanno sul corpo i segni delle torture subite dopo essere stati presi dai trafficanti. Con il passare delle ore iniziano a ricordare. «Ci davano un pezzo di pane al giorno, nemmeno le bestie si trattano così». Anche i ragazzi denunciano di aver subito abusi sessuali.

Il mediatore culturale Mohammad Taher parla con i migranti che sono arrivati dal Bangladesh, in crescita da quando si è creata una rete di human trafficking che opera tra Tripoli e Dacca. «Per i libici, queste persone sono solo pezzi d’oro» dice con le lacrime agli occhi mentre cala il tramonto. Poi inizia la distribuzione del cibo, un sacchetto di riso precotto da mischiare con l’acqua. Le operazioni durano anche due ore sotto il sole a picco. «Abbiamo finito i cucchiai», grida ad un certo punto Svenja. Ma l’atmosfera è distesa, si ride e si scherza mentre Mohamed insegna a tutti cosa significa vedere un bambino sorridere dopo mesi di torture. Alla sera, nello shelter, la zona riservata alle donne, si iniziano a cantare i gospel. «Say thanks God for the rescue, diciamo grazie a Dio per questo salvataggio». Geraldine sta in mezzo alle ragazze disposte in cerchio e alterna la preghiera ai canti. Poi verso le 2 su Aquarius cala il silenzio.

Venerdì 14 luglio, porto di Brindisi

La Libia è alle spalle ormai. Alle 8:20 Aquarius attracca al Molo Sant’Apollinare di Brindisi. Polizia, Protezione Civile, Croce Rossa e rappresentanti di Frontex sono già schierati per accogliere i migranti. Le autorità sanitarie salgono a bordo e danno il via libera. Viene ammainata la bandiera gialla della quarantena sanitaria. Alle 9:23 inizia lo sbarco. Il primo a mettere piede a terra è un ragazzo della Costa d’Avorio con un frattura esposta alla gamba. La seconda è Costance con il piccolo Christ in braccio. A tutti viene misurata la febbre. Parte un applauso. Seguono i casi che lo staff di Msf ha individuato come persone che hanno subito abusi e torture. Sono almeno una quarantina. Poi, in fila lentamente tutti gli altri scendono lungo la scaletta sotto il sole. La missione di Aquarius è finita. Ma per 860 persone è appena iniziato un altro viaggio. Forse quello più lungo.

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Internazionale | 17.07.2017

A bordo della nave Aquarius che salva i migranti

Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale

Tutto è cominciato con una fotografia: un barcone in difficoltà carico di persone, avvicinato da un’altra imbarcazione. È stato guardando quella foto scattata durante un’operazione di salvataggio nel Mediterraneo centrale che Alessandro Porro, 37 anni, originario di Asti, ha deciso d’imbarcarsi sulla nave Aquarius gestita dall’ong Sos Méditerranée con l’aiuto di Medici senza frontiere (Msf).

“La scorsa estate lavoravo con la Croce rossa sulle spiagge, in Toscana. Un giorno tornando a casa, ho trovato una copia di Internazionale e nelle prime pagine del giornale la foto di un salvataggio”, racconta Porro, che ha alle spalle quasi vent’anni di esperienza come soccorritore specializzato nelle emergenze mediche a bordo delle ambulanze. “Avevo appena compiuto 18 anni quando ho cominciato a fare il volontario alla Croce rossa”, racconta.

La foto ha colpito l’attenzione di Porro, perché mostrava il contrasto “anche tecnologico tra una barca molto precaria, che quasi non riusciva a galleggiare, e una molto attrezzata, pronta a intervenire”. Quell’immagine l’ha spinto a mandare il suo curriculum a tutte le organizzazioni non governative che pattugliano il Mediterraneo centrale.

Si è imbarcato da due settimane sull’Aquarius e spiega che la parte più difficile dei soccorsi in mare non è mettere in sicurezza le imbarcazioni e le persone, ma quello che succede dopo, quando i naufraghi sono stati portati a bordo. “Questa nave, che è così confortevole quando è vuota, con decine, centinaia di persone sul ponte diventa come una piazza, non ci si riesce neanche a muovere”.

La prima notte dopo i soccorsi si sente un silenzio surreale, racconta Porro. Poi nei giorni successivi le persone cominciano a riprendere le forze: c’è chi canta, chi prega. Quando all’orizzonte appare la terraferma esplode la gioia: “Pensano solo al fatto di essere sopravvissuti e non si pongono il problema di cosa li aspetta all’arrivo”.

Pronti a salpare

Alle 13 del 15 luglio 2017 l’Aquarius è pronta a partire, i marinai allentano gli ormeggi dalla banchina di Brindisi dove sono arrivati due giorni prima con 860 persone a bordo, tra cui una donna del Camerun, Costance, che ha partorito il figlio Christ su un gommone al largo della Libia e allo sbarco è stata affidata alle suore di un convento nella provincia del capoluogo pugliese.

Mentre Alessandro Porro racconta perché ha scelto d’imbarcarsi, la nave, lunga 77 metri, lentamente si allontana dal molo, scortata da una motovedetta della capitaneria di porto che deve assicurarsi che non s’incagli in qualche secca. L’equipaggio è composto da tre squadre: i marinai, l’équipe di Medici senza frontiere e i 13 soccorritori di Sos Méditerranée, specializzati nel salvataggio delle persone in mare. In tutto 32 persone.

L’Aquarius, che batte bandiera di Gibilterra, ci metterà 36 ore per raggiungere le acque internazionali – venti o trenta miglia nautiche a nord delle coste libiche – dove avviene la maggior parte dei soccorsi. “Le operazioni si concentrano nella zona occidentale delle acque internazionali, di fronte alla Libia”, spiega Marcella Kraay, coordinatrice di Msf.

Le ultime operazioni di salvataggio sono state molto intense: “Siamo stati circondati anche da 14 imbarcazioni”. Kraay è olandese, ma è cresciuta in Canada e si considera un’immigrata, perché è figlia di una coppia olandese che ha cercato fortuna in America. Racconta che i soccorsi in mare sono come una maratona: c’è bisogno di lunghi preparativi ed esercitazioni, che di solito si svolgono durante il tragitto per raggiungere l’area di search and rescue (ricerca e salvataggio). Una volta arrivati nell’area, cominciano i turni di avvistamento a partire dalle prime luci dell’alba.

Quando la centrale operativa della guardia costiera di Roma si mette in contatto con l’Aquarius per segnalare la presenza di un’imbarcazione in difficoltà oppure quando le vedette ne avvistano una, tutto l’equipaggio si raduna sul ponte in pochi minuti . A questo punto comincia la parte più frenetica delle operazioni: le scialuppe di salvataggio vengono messe in mare e i soccorritori si avvicinano alla barca che ha chiesto aiuto, in modo da trasferire i migranti sull’Aquarius. I turni possono durare 12 o anche 14 ore. Ma la parte più difficile è tornare indietro con centinaia di persone a bordo: “Sono tutti stanchi, affamati, disidratati”.

Da gennaio a maggio del 2017, l’Aquarius ha soccorso in mare 7.836 persone, tra cui 1.466 minori non accompagnati e 949 donne. “Quello che sta succedendo nel Mediterraneo centrale negli ultimi anni è un fenomeno nuovo e unico”, afferma Marcella Kraay. Se si pensa che la guardia costiera considera un’emergenza quando due o tre persone sono in mare e rischiano di annegare, è facile comprendere come una situazione in cui si deve prestare soccorso a trecento persone contemporaneamente sia del tutto eccezionale. “Basta un errore per provocare la morte di qualcuno, ma in questi anni la guardia costiera italiana e tutte le organizzazioni coinvolte nel soccorso hanno sviluppato delle tecniche innovative per questo tipo di situazioni”, continua Kraay.

La guardia costiera libica è un pericolo

Mentre l’Aquarius scivola sul mare a una velocità di dieci nodi, Andreas, un marinaio greco spiega agli ultimi arrivati sulla nave cosa fare in caso d’emergenza. Al segnale di un suono sordo e discontinuo, bisogna abbandonare qualunque attività e correre nel bunker, una stanza attrezzata che si chiude dall’interno con dei rinforzi, il luogo più sicuro della nave. È una procedura che bisogna seguire molto raramente, ma tutti devono sapere come fare. L’ultima volta che è stata usata da una nave umanitaria gestita da Medici senza frontiere è stato sulla Bourbon Argos.

All’epoca, nell’agosto del 2016, la guardia costiera libica aveva sparato contro la nave e i guardacoste libici erano saliti a bordo. Da allora le navi di Medici senza frontiere stanno sempre in guardia quando si avvicinano le navi libiche. In un altro episodio è stato coinvolto anche l’equipaggio dell’Aquarius, che nel maggio del 2017 ha assistito all’abbordaggio di un gommone carico di migranti da parte della guardia costiera libica. “I libici sono saliti sul gommone e hanno spaventato le persone a bordo chiedendogli di consegnare soldi e qualsiasi cosa di valore, poi hanno cominciato a sparare in aria e si sono messi alla guida del gommone”, racconta Marcella Kraay. “Le persone a bordo si sono sentite minacciate, si sono fatte prendere dal panico e molte sono finite in acqua perché hanno visto l’Aquarius all’orizzonte e hanno preferito buttarsi in mare”.

Kraay racconta che dopo la firma del memorandum d’intesa tra l’Italia e la Libia nel febbraio del 2017, c’è una maggiore presenza di navi libiche nelle acque internazionali: pescatori, guardacoste, milizie. “È molto difficile a volte individuare le navi della guardia costiera libica, perché ci sono molte fazioni e non fanno capo a un unico corpo militare. Ci sono delle unità che collaborano con le navi umanitarie e altre che interferiscono in maniera pericolosa con i soccorsi”, conclude Kraay.

Il tempo ci darà ragione

Dopo l’università, Alessandro Porro ha lavorato per 13 anni come programmatore prima di essere assunto come soccorritore professionista dalla Croce rossa toscana. Ma nell’estate del 2016 ha deciso di prendersi una piccola pausa dal lavoro per un’esperienza che definisce “l’università del soccorso in mare”. È pagato 30 euro al giorno e non si preoccupa delle critiche che sono state rivolte alle organizzazioni non governative, accusate di attirare i migranti in Europa.

“I flussi migratori non si possono fermare”, afferma Porro, e per spiegare perché ne è convinto racconta che in Piemonte, la sua regione di origine, da qualche anno stanno attecchendo le piante di ulivo. “Il mondo è sempre più caldo a causa dei cambiamenti climatici, sempre più inospitale. Se anche le piante hanno cominciato a spostarsi come possiamo pensare che non lo facciano anche le persone?”, chiede. E poi si devono considerare i conflitti da cui l’Europa è circondata a partire proprio dalla guerra in Libia.

Per Porro le autorità europee dovrebbero trovare una soluzione condivisa per accogliere i richiedenti asilo, ma nel frattempo i soccorritori fanno quello che possono per mettere in sicurezza delle imbarcazioni che non sarebbero in grado di attraversare il Mediterraneo da sole. “Nell’ultima operazione di soccorso abbiamo visto persone torturate, violentate, persone che portavano i segni delle frustate ricevute in Libia”, racconta.

Mentre l’Aquarius naviga placida verso sud, lasciandosi alle spalle Santa Maria di Leuca e l’estremità della penisola italiana, Alessandro Porro guarda le onde increspate e sembra fiducioso: “Quello che stiamo facendo ha un senso profondo e sono curioso di sapere come saranno raccontati nei prossimi anni i giorni che stiamo vivendo”.

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