04. Dezember 2015 · Kommentare deaktiviert für So schützen Ägypten und Libyen die Chefs der Massaker. Isis bedankt sich · Kategorien: Ägypten, Italien, Libyen · Tags: ,

Nicht nur die Türkei sieht sich verstärktem Druck der EU ausgesetzt, Flüchtlinge und MigrantInnen vor den Toren der Festung Europa aufzuhalten. Italien verschärft die Forderung an nordafrikanische Staaten, polizeilich-juristisch gegen potentielle Boat-People vorzugehen. Der Ansatz ist eine Vermengung von Antiterrorismus und polizeilicher Bekämpfung der sogenannten Organisierten Kriminalität und der kommerziellen Fluchthilfe.

Nun veröffentlicht auch die Tageszeitung „Il Fatto Quotidiano“ Recherchen zu diesem Abschottungs-Amalgam. Gerade gegenüber Ägypten bleibt das Rhetorik, ist doch das ägyptische Regime derzeit das blutigste Regime gegenüber IslamistInnen und syrischen Flüchtlingen; die italienischen Rückschiebungen nach Ägypten funktionieren leider seit Jahren ohne jede Hindernisse und Proteste.

Quelle: Il Fatto Quotidiano

Traffico di migranti, così Egitto e Libia salvano i boss delle stragi. L’Isis ringrazia

Inchiesta di ilfattoquotidiano.it sui grandi trafficanti responsabili di sbarchi e naufragi. Fuad Abu Hamada è l’organizzatore di una traversata finita con 400 morti, ma il Cairo non risponde alla richiesta di arresto. Inafferrabile anche l’etiope Ermias Ghermay, ricercato dalla procura di Palermo per i 366 affogati a Lampedusa nel 2013. E così via. Senza collaborazione intenazionale, gli sforzi investigativi del Gruppo contrasto all’immigrazione clandestina di Siracusa e di diverse procure non riscono andare al di là dell’arresto degli scafisti. Ma intanto emergono collegamenti fra trafficanti e jihadisti

di Lorenzo Galeazzi e Mario Portanova

Fuad Abu Hamada è accusato di essere l’organizzatore di una traversata in cui sono morti circa quattrocento migranti, per metà donne e bambini. Non una disgrazia – se così si possono chiamare le tragedie del mare provocate da carrette scassate e sovraccariche – ma l’atto deliberato di uno dei trafficanti, che ha speronato l’imbarcazione condotta da un “collega”, dopo il rifiuto di quest’ultimo di trasbordare il carico umano su un natante ancora meno sicuro.

Il 18 settembre 2014, nove giorni dopo il naufragio, la Procura della repubblica di Catania ha inoltrato alla Repubblica Araba d’Egitto un ordine di custodia cautelare per Fuad, accusandolo di associazione a delinquere e procurato ingresso illecito. Non di strage, perché i pm non hanno potuto appurare se fosse consapevole dello speronamento. L’Egitto ha restituito l’identificazione del boss: “Nato ad Aleppo (Siria) in data 1.7.1964”. Poi più nulla. Così finiscono molte indagini contro le organizzazioni criminali che stanno dietro l’eterna emergenza sbarchi. Si arrestano gli scafisti, ma i capi riescono quasi sempre a cavarsela. E a continuare un business che mostra diversi punti di contatto con le attività dell‘Isis.

Il procuratore generale di Roma Giovanni Salvi ha parlato recentemente di un “pizzo” imposto dai jihadisti sulle rotte di terra nordafricane utilizzate dai trafficanti. Rotte che, secondo diversi analisti, i miliziani nigeriani di Boko Haram percorrono per combattere di fianco all’Isis in Libia. Una scheda telefonica di Abdel Majid Touil, il giovane marocchino arrivato in Italia su un barcone e ingiustamente accusato della strage del Bardo in Tunisia, è finita in mano ai suoi scafisti e – come ha documentato Paolo Biondani sull’Espresso – è stata poi utilizzata nell’organizzazione dell’assalto al museo. Bassam Ayachi, l’imam indicato come indottrinatore di alcuni dei terroristi del tragico 13 novembre parigino, era stato arrestato a Bari nel 2008 per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il legame tra sbarchi e arrivo di terroristi è buono più per la propaganda politica che per altro, ma una maggiore sintonia internazionale sul fronte dei trafficanti potrebbe fornire anche informazioni ultili per la lotta ai fanatici del Jihad.

“Da parte dell’Egitto c’è una totale mancanza di collaborazione”, spiega a ilfattoquotidiano.it il pm della Direzione distrettuale antimafia di Catania Rocco Liguori, impegnato anche nelle indagini su Fouad Abu Hamada. E questo nonostante il Paese sia firmatario della Convenzione Onu contro la criminalità organizzata transnazionale siglata a Palermo nel 2000, nonché del protocollo addizionale specifico sul traffico di migranti. Dal Cairo, però, nessuno è mai stato estradato. E quando di mezzo c’è la Libia, altro nido di trafficanti, peggio che peggio. Nel caos del Paese che fu di Gheddafi “c’è una totale mancanza di referenti istituzionali”. Tra Catania, Siracusa e Ragusa nel 2014 sono sbarcati 79mila migranti, quasi la metà del totale nazionale, pari a 165mila. Gli sbarchi- dicono i dati della Dda di Catania – sono stati 263, con 61 fermi di scafisti. Dal 2011 il Tribunale ne ha rinviati a giudizio 191, e le condanne in primo grado sono state 110.

FUAD ABU HAMADA E LA MAFIA DEGLI SBARCHI

Eppure di Fuad Abu Hamada sappiamo quasi tutto, grazie alle testimonianze di diversi superstiti soccorsi in mare e sbarcati a Pozzallo (Siracusa). Il nome, il volto riconosciuto da una foto di Facebook, due numeri di cellulare e soprattutto l’indirizzo esatto dell’ufficio da cui dirige il traffico di esseri umani da Alessandria d’Egitto, quartiere Miami, di fianco al palazzo di 12 piani dove molti dei migranti – in prevalenza siriani e palestinesi – hanno sostato prima della partenza per l’Italia, avvenuta dalla spiaggia di Wad el Gamer la notte tra il 6 e il 7 settembre 2014. Costo: duemila dollari. Fouad aveva rassicurato i suoi “passeggeri” sul fatto che a un certo punto “qualcuno avrebbe telefonato alle autorità italiane per richiedere il soccorso in mare e ciò ci avrebbe consentito di raggiungere l’Italia a mezzo delle unità di soccorso”.

In assenza di collaborazione delle autorità locali, sui padrini del traffico ci restano solo le informazioni fornite dagli scampati. “Corporatura robusta, leggeri baffi, carnagione chiara, capelli che danno sul biondo”, hanno raccontato di Fuad. Oltre che in Egitto, la sua organizzazione opera in Siria e in Palestina. Ai pm di Catania è descritto come un boss mafioso: “Il rispetto nei suoi confronti è assoluto, anche dagli abitanti di Alessandria”. In città “gode di elevata notorietà soprattutto per la forza intimidatrice e di assoggettamento che riesce ad esercitare con i suoi adepti durante la commissione dei delitti relativi al favoreggiamento all’immigrazione clandestina verso l’Italia”. Una notorietà che alle autorità egiziane non dovrebbe essere sfuggita.

“Tra Libia ed Egitto ci sono diverse organizzazioni criminali specializzate nel traffico di migranti”, spiega il pm Liguori. “Hanno capi riconosciuti, uomini armati, mezzi terrestri e marittimi, alloggi e fattorie”. Fouad non è l’unico presunto “padrino” che l’Egitto non punisce né consegna. Dal 18 settembre 2014 la procura di Catania aspetta notizie su Hanafi Ahmed Mohamed Farrag, “nato in Egitto il 29.7.1982, residente a Borg Meghezel, Metobes, governatorato di Kafr El Sheik”. La Procura di Catania lo considera un pezzo grosso del traffico di essere umani e lo accusa dell’arrivo di 360 immigrati per lo più egiziani e siriani, in tre viaggi tra luglio e ottobre del 2013. Ha un nome, ma è ancora libero, anche il presunto responsabile del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013: 366 vittime, un punto di svolta nella consapevolezza dell’opinione pubblica sulle tragedie del mare. E’ l’etiope Ermias Ghermay, che opera in patria, in Eritrea, in Sudan e in Libia. E’ latitante dal 12 febbraio 2015. La Direzione distrettuale antimafia di Palermo contesta alla sua organizzazione lo sbarco clandestino sulle coste siciliane di almeno 5.377 migranti, tra il maggio 2014 e il febbraio 2015. Ciascuno di loro ha sborsato a Ghermay tra i 1.500 e i 2mila dollari Usa.

JAMAL SAOUDI: 400 MORTI E I „SERVIZI“ AL CARA DI MINEO

Un altro signore delle stragi, secondo la Procura di Catania, è un eritreo conosciuto come Jamal Saoudi, che opera in Libia, con base in una fattoria di Zuwara, cittadina costiera a ovest di Tripoli. Nell’estate del 2014, ricostruiscono gli investigatori, almeno due viaggi organizzati da lui finiscono in tragedia: il 28 giugno scompare per sempre un barcone con 244 persone a bordo, per lo più eritrei. Il 30 luglio, un centinaio di chilometri a est di Tripoli, ad andare a picco è un natante carico di 150 persone, provenienti dall’Africa sub-sahariana. La “merce” – così Saoudi chiama i migranti nelle telefonate intercettate – non arriva a destinazione. Del primo naufragio si viene a sapere perché l’allarme per parenti e amici attesi e mai arrivati filtra dalla comunità eritrea di Milano, storicamente numerosa e organizzata. Ne scrive su Avvenire il giornalista Paolo Lambruschi, che dopo la pubblicazione dell’articolo riceve una telefonata dallo stesso Saoudi. “Gridava in arabo, in modo concitato. Ha minacciato me e gli attivisti eritrei che lo avevano tirato in ballo”, racconta Lambruschi a ilfattoquotidiano.it.

Souadi risulta a capo di una grossa organizzazione che raccoglie migranti dal Sudan all’Eritrea, li convoglia in una grande fattoria di Zuwara e lì organizza gli imbarchi per la Sicilia. Il viaggio via terra è fatto di fatica, violenze, sequestri di persona. Quello via mare è una roulette russa. A ogni tratta corrisponde una tariffa che il boss s’incarica di incassare personalmente. Anche attraverso la hawala, un circuito “bancario” clandestino diffuso in Africa. Se no vanno bene anche Western Union, Moneygram o, in Italia, Postepay. Ogni singolo migrante frutta migliaia di dollari.

I “servizi” offerti da Jamal Saoudi toccano il Cara di Mineo, centro di prima accoglienza attorno al quale si concentrano gli appetiti più disparati, dal giro di Mafia Capitale a politici e amministratori politici siciliani – indagato, fra gli altri, il sottosegretario di governo Giuseppe Castiglione – fino appunto ai trafficanti di carne umana. Grazie a opportuni scambi di badge, attraverso i suoi uomini Saoudi “smistava i migranti a suo piacimento e ne organizzava i successivi spostamenti” verso Roma e Milano, scrivono i pm catanesi nelle carte dell’operazione Tokhla.

CACCIATORI DI SCAFISTI: LA „SQUADRETTA“ DI SIRACUSA

L’avamposto della lotta a scafisti e trafficanti è un piccolo ufficio con quattro scrivanie al quinto piano della Procura della Repubblica di Siracusa. E’ la sede del Gicic, il Gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina, creato nel 2006 e coordinato dal sostituto procuratore Antonio Nicastro.

La squadretta guidata dal sostituto commissario di polizia Carlo Parini è composta da uomini della Guardia costiera, dell’Agenzia delle Dogane e da un paio di interpreti-mediatori culturali inquadrati come ausiliari di polizia giudiziaria. Le pareti sono zeppe di faldoni. In cima agli scaffali, decine di scatole per fogli da stampante custodiscono i miseri reperti di sbarchi e naufragi. La scrivania di Parini sembra una trincea della Grande guerra, con una montagna di fascicoli al posto dei sacchi sabbia. Di fianco è appesa la fotocopia dell’articolo 7 del decreto sull’immigrazione clandestina: “Nell’assolvimento del compito assegnato l’azione di contrasto è sempre improntata alla salvaguardia della vita umana ed al rispetto della dignità della persona”.

Nella perenne emergenza non ci sono turni che tengano. Nel picco di quest’estate, dovuto soprattutto alla crisi siriana, “in una solo giornata c’erano fino a venti gommoni in mare”, racconta Tonio Panzanaro, secondo capo scelto della Guardia costiera in forza al Gicic.

Gli uomini di Parini sono i primi ad accorrere a ogni sbarco in quel tratto di costa, anche se l’avamposto della lotta ai trafficanti non è dotato neppure di un’auto di servizio. Poco conta che sia notte, mattina presto e o che si tratti di salire all’improvviso su una motovedetta per raggiungere i barconi intercettati in mare aperto. Gli agenti approcciano i migranti, cercano di individuare subito gli scafisti e, quando possibile, di tirare le fila fino ai vertici del traffico. La prima domanda è se qualcuno abbia subito violenze o sia stato ucciso durante la traversata, in modo da poter contestare i relativi reati.

Come si riconosce al volo uno scafista nel caos dei soccorsi? Lo spiega Abdelaziz Mouddih, per tutti Aziz, marocchino in Italia ormai da una quarantina d’anni, uno degli ausiliari della squadretta, di mestiere kebabbaro a Ortigia, il suggestivo centro storico di Siracusa.

“Lo scafista di solito ha i vestiti asciutti e il pacchetto di sigarette pieno”, dice con l’aria di chi ne ha viste tante. Comunque di solito sono i “passeggeri” a prendersi la rivincita contro i loro aguzzini, specie dopo le traversate più infernali. “Vedo quello che mi dicono con la bocca”, affabula Aziz.

Aziz il kebabbaro è un Google umano degli scafisti. Appena sale su un barcone scruta la scena alla ricerca di facce note, magari gente “che abbiamo già arrestato”, dice senza celare un’evidente vocazione sbirresca. Perché uno scafista preso la prima volta se la può cavare patteggiando tre o quattro mesi di carcere e poi tornare al suo mestiere, ma con la recidiva le cose si mettono peggio. E la pena può toccare i sette anni.

LA STRAGE DEGLI STUDENTI E LA TONNARA DEI SEPOLTI VIVI

Sono scene dell’orrore quelle che spesso si parano davanti agli uomini del Gcic. Carlo Parini è un omone, un cinquantenne siciliano alto, robusto e schietto. Ma a volte è troppo anche per lui. “Nella primavera del 2005 ci furono diversi sbarchi di cinesi provenienti da Malta. Gli scafisti erano soliti buttarli in mare a circa un miglio dalla costa, ma l’acqua in quella stagione era ancora fredda e molti non ce la facevano. La notte del 24 marzo, sulla costa intorno a Pozzallo, recuperammo nove cadaveri. Qualcuno era riuscito ad arrivare a terra fino alla strada, ma non era sopravvissuto. Erano ragazzi e ragazze giovani. Scoprimmo poi un giro di visti scolastici falsi fra Pechino e Malta, messi in vendita a 10mila euro l’uno, che permettevano la circolazione nell’area Schengen. Riuscimmo almeno a dare un nome a tutti quei cadaveri, e le nostre indagini, in collaborazione con le autorità di La Valletta, portarono all’arresto dei tre fratelli fratelli maltesi organizzatori del traffico”.

Poi ci fu quella volta, nel 2011, dei sepolti vivi nella tonnara abbandonata di Santa Panagia, vicino a Siracusa. Ventidue giovani egiziani da una settimana erano reclusi in un tugurio sotterraneo perché i trafficanti cercavano di estorcere altri soldi ai familiari. Uno degli scafisti, fermato all’epoca, incontrerà di nuovo Aziz e Parini su una nave intercettata dalla Marina militare a ottobre di quest’anno, in un’operazione conclusa con 21 arresti. Finirà di nuovo in carcere, nonostante il goffo tentativo di inscenare un “carramba che sorpresa” con tanto di baci e abbracci agli “amici” ritrovati.

Il commissario Parini apre da Internet una mappa della costa libica e snocciola i porti di partenza: Zuwara, Tobruk, Bengasi… Anche in Egitto, aggiunge, “conosciamo tutti i luoghi d’imbarco, e chi opera, nel delta del Nilo. Ormai ci basta vedere il colore del barcone per capire da dove proviene”. Ma il muro di gomma di Egitto e Libia non lascia andare oltre. Poi ci si mettono pure le leggi italiane. Parini, un po’ di anni fa, riuscì a incastrare un grosso trafficante. Che del boss aveva tutto, tranne il physique du rôle. Giovane, bella, “con rotoli di banconote nascosti sotto i vestiti colorati”, scrive di lei Cristina Giudici in Mare Monstrum (Utet 2015), un libro che racconta gli uomini e le storie del Gicic. Lei è Madame Gennet, vero nome Ganet Tewide Bahare, eritrea. Nel 2003, Parini si trovò a occuparsi di un gommone carico di cadaveri alla derive vicino a Lampedusa. Arrivavano dalla solita Zuwara, erano tutti morti di stenti tranne una donna che fu salvata per miracolo. Indicò Madame Gennet come numero uno dell’organizzazione. Quel nome ritornava in altri sbarchi. La ‘madame’ fu arrestata a Tripoli e – Gheddafi era ancora saldo in sella – consegnata all’Italia. Finì in carcere a Civitavecchia, ma ne uscì dopo tre anni appena. Grazie all’indulto.

IL CORRIDOIO UMANITARIO C’E‘ GIA‘. MA A META‘

Porto commerciale di Augusta (Siracusa), mattina del 22 ottobre 2015. Attracca la nave Dattilo della Guardia costiera, con una gigantesca scritta rossa sulla fiancata, “Rescue zone”, zona di soccorso. A bordo, una novantina di profughi eritrei e somali soccorsi in mare. Molti giovani, molte ragazze con vestiti colorati. L’arrivo dei migranti è l’unica attività che movimenta lo scalo nell’arco di tutta la giornata, salvo un singolo camion che preleva un singolo container dalla banchina spazzata dal vento. Il molo, però è affollato. Spiccano le pettorine di una pletora di organizzazioni umanitarie: Unhcr, Croce rossa, Save The Children, Emergency… Ci sono anche gli osservatori di una ong belga, in missione per verificare il trattamento riservato ai migranti. Non manca la Protezione civile e il tutto è sorvegliato, oltre che dalla locale questura, da un contingente del Battaglione mobile dei carabinieri, arrivato da Milano perché tutti i “celerini” locali risultano impegnati altrove, per lo più sul fronte migranti.

Eppure è uno “sbarco” come tanti, routine neppure registrata dalle cronache. Nessun naufragio, per fortuna, né violenze durante la traversata. Non c’è dramma, non c’è pathos. La prima cosa che chi scende a terra deve declinare non sono le generalità ma il numero di scarpe, perché ciascuno riceve un paio di zoccoli in gomma tipo crocs. I migranti vengono messi in fila per tre sulla banchina e fatti accovacciare per qualche minuto. Nessuno grida, nessuno parla. L’espressione dei loro volti non è poi tanto diversa da quella di qualunque viaggiatore alle prese con noiose formalità doganali. Poi il gruppo scompare oltre le transenne di un piccolo campo tendato allestito al porto per identificazione, controlli medici e smistamento nei centri di accoglienza. In tutta la procedura, il contatto con la popolazione locale è pari a zero.

Gli sbarchi veri, ormai, in Italia sono rari. I trafficanti sanno che i barconi saranno intercettati ben prima delle missioni di pattugliamento. E che qualcuno si incaricherà di coprire l’ultima tratta del viaggio. Tant’è, spiega il commissario Parini, che ormai le mafie delle traversate non hanno neppure più bisogno di una rete di complici in Italia- emersa invece in diverse indagini passate – per gestire l’arrivo dei migranti e il loro smistamento nel nostro Paese o in Nord Europa. A questo pensano le autorità italiane.

Mezzo corridoio umanitario di fatto c’è già. Forse andrebbe presa in considerazione l’idea di aprire l’altra metà, venendo incontro alla richiesta di molte organizzazioni umanitarie. Invece di lasciarla agli inafferrabili boss delle stragi.

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