03. Mai 2017 · Kommentare deaktiviert für „È morto Valentino Parlato, il comunista eretico che fondò Il Manifesto“ · Kategorien: Italien, Libyen

La Repubblica | 02.05.2017

Il giornalista si è spento all’età di 86 anni. Espulso dal comitato centrale del Pci nel 1969, insieme a Luigi Pintor e Rossana Rossanda diede vita al quotidiano comunista

di CONCETTO VECCHIO

Gentile e ironico, Valentino Parlato fumava ottanta sigarette Pueblo al giorno e beveva vino bianco anche di buon mattino. Straordinaria figura di comunista eretico è morto all’età di 86 anni. Dal 1969, anno della scissione dal Pci, la sua biografia si era interamente identificata con quella del manifesto, il giornale di cui fu fondatore e quattro volte direttore. Non fosse stato per lui, per la sua incessante ricerca di finanziamenti, a tutti i livelli – perfino dal Psi di Craxi una volta ottenne un prestito di 60 milioni di lire, poi restituito – il quotidiano, un pezzo di storia della nostra editoria, probabilmente non sarebbe sopravvissuto..

Era nato a Tripoli, dove il padre lavorava come funzionario del fisco. Valentino Parlato venne espulso dal Protettorato inglese nel ’51. Raccontò così quegli anni lontani: „Ero studente in Legge: se fossi sfuggito a questa prima ondata sarei diventato un avvocato tripolino e quando Gheddafi m’avrebbe cacciato, nel 1979, insieme a tutti gli altri, mi sarei ritrovato in Italia, a quasi cinquant’anni, senz’arte né parte. Sarei finito a fare l’avvocaticchio per una compagnia d’assicurazione ad Agrigento, a Catania. Un incubo. L’ho veramente scampata bella“. Invece, finisce per fare il funzionario nel Pci, collaboratore di Giorgio Amendola („ogni mattina mi chiedeva: che succede in città?, come si fa con un ragazzino“). Lo spediscono per un breve periodo alla federazione di Agrigento, quindi si ritrova giornalista economico a Rinascita.

Negli anni Cinquanta ha conosciuto Luciana Castellina e Rossana Rossanda, due incontri decisivi. Ha 38 anni quando i tre lasciano il Pci e fondano il manifesto rivista; il primo numero costa 50 lire e vende 30mila copie. Enrico Berlinguer prova a mediare con Rossanda, nel tentativo di evitare la rottura definitiva, ma il 4 settembre, dopo l’invasione dell’Unione sovietica in Cecoslovacchia, la rivista esce con l’articolo „Praga è sola“: un duro affondo contro il Pci per non aver condannato l’intervento sovietico, un pezzo non firmato, ma scritto da Luigi Pintor. E‘ il divorzio immediato, come raccontò nel libro-intervista: „La rivoluzione non russa“, a cura di Giancarlo Greco.

Il 24 novembre 1969 Valentino Parlato viene licenziato da Rinascita, e insieme a Natoli, Rossanda, Pintor, è radiato dal Pci. Il manifesto diventa quotidiano il 28 aprile 1971, e pur nella forte connotazione politica, doveva essere „un giornale, un giornale, un giornale“, come disse Pintor, parafrasando la celebre frase di Gertrude Stein „una rosa è una rosa è una rosa“. Il primo numero vende 22mila copie. La sede è in via Tomacelli, al quinto piano di uno stabile dell’Ina, dove rimarrà fino al 2007, da qui passerà un’intera generazione di cronisti. Magri stipendi per tutti, rotazione delle mansioni, un redattore deve occuparsi delle spedizioni. Nel ’78, per finanziare l’acquisto della tipografia a Milano, tutti rinunciarono allo stipendio per tre mesi. „Con Rossana mi sento tutte le settimane e Luciana è straordinaria nella sua voglia di girare il mondo“, riassunse così quelle amicizie per la vita.

Due mogli, Clara Valenzano e Delfina Bonada, tre figli, uno dei quali, Matteo, ha fatto anche un documentario sul padre, Vita e avventure del Signor di Bric à Brac, scritto e diretto insieme a Marina Catucci e Roberto Salinas. Nel salotto di casa Parlato spiccano le foto con il cardinale Silvestrini e il colonnello Gheddafi, e valgono queste istantanee a raccontare il personaggio, e le sue contraddizioni, più di tanti articoli. Sostenne il governo Dini e il primo Prodi, alle ultime elezioni comunali a Roma aveva votato Virginia Raggi.

Come tutti alla fine era sgomento per come erano andate le cose, per la debolezza della sinistra incapace di cogliere i mutamenti della società: „Siamo in una fase di passaggio, le forze di produzione sono cambiate ma non sappiamo come analizzarle; il lavoro umano è diventato meno importante di una volta; servirebbe una rielaborazione del pensiero, ma la sinistra ragiona come se il passato fosse ancora presente. E‘ in crisi la speranza, mio nipote che ha 9 anni e so già che avrà meno possibilità di quelli della mia generazione. Non si può non essere pessimisti“, disse un’intervista nel suo ultimo colloquio con Repubblica nel novembre scorso, quindi, malinconico, allungò le dita sul piattino di mandorle poste sul tavolo.

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Il Fatto Quotidiano | 02.05.2017

Valentino Parlato morto, il comunista eretico con il gusto della provocazione che doveva fare “l’avvocaticchio” in Libia

Tra la cacciata da Tripoli e l’incontro con Gheddafi il fondatore del Manifesto sarà tante cose: intellettuale e militante di partito, esperto di politica economica, giornalista di mestiere (“Girava sempre con il giornale sotto il braccio”, dice chi lo conosceva bene) e provocatore per vocazione. Ripensando all’epoca in cui la sua generazione “si gettava nella lotta”, ammetterà: “Noi dell’Urss non sapevamo nulla”

di Valerio Valentini

Per chi, come lui, coltivava il senso dell’umorismo e il gusto della provocazione in modo quasi maniacale, era normale scherzare anche sugli eventi più traumatici della vita. Come l’espulsione dalla Libia, avvenuta nel 1951. “Se fossi sfuggito a questa prima ondata, da bravo studente in Legge sarei diventato un avvocato tripolino e quando Gheddafi m’avrebbe poi cacciato, nel 1979, insieme a tutti gli altri, mi sarei ritrovato in Italia, a quasi 50 anni, a fare l’avvocaticchio per una compagnia d’assicurazione ad Agrigento, a Catania. Un incubo. L’ho veramente scampata bella”.

Valentino Parlato, morto nella notte tra l’1 e il 2 di maggio a 86 anni, in Libia – per la precisione a Tripoli – c’era nato il 7 febbraio 1931. Suo padre, funzionario del fisco originario di Favara, fu mandato dal regime fascista a lavorare in quella che all’epoca era la colonia più prestigiosa. E dalla Libia fu cacciato all’età di vent’anni, a causa della sua militanza comunista, quando ormai il Paese africano non era più la nostra “quarta sponda”, ma ricadeva sotto il protettorato britannico. “Sul finire di una notte di novembre – racconterà Parlato molti anni dopo – i poliziotti inglesi entrarono in casa nostra. Erano armati, la perquisirono e mi arrestarono. Io non appena li vidi, prima ancora che fossero dentro, buttai dalla finestra tutte le pubblicazioni visibilmente comuniste che tenevo in casa. Avevo paura della prigione, e invece quando capii che l’auto militare mi portava in direzione del porto trassi un sospiro di sollievo. Espulsione, e non galera”. In Libia ci sarebbe poi tornato, mezzo secolo dopo, da invitato speciale e con tutti gli onori. Gheddafi lo convocherà per un colloquio molto amichevole: “Gli avevo fatto avere i documenti della nostra Associazione per il progresso della Libia, quelli elaborati all’epoca della mia giovinezza tripolina”.

Tra la cacciata e il ritorno, però, in quei 50 anni Valentino Parlato fu molte cose. Intellettuale e militante di partito, esperto di politica economica, giornalista di mestiere (“Girava sempre con il giornale sotto il braccio”, dice chi lo conosceva bene) e provocatore per vocazione. Comunista “eretico”, che ripensando all’epoca in cui la sua generazione “si gettava nella lotta”, ammetterà: “Noi dell’Urss non sapevamo nulla”.

Lasciata la Libia, Parlato arriva a Roma, dove s’iscrive all’Università. E lì che conosce Luciana Castellina, ed è in quel momento – sempre il ’51 – che entra nel Pci. E conosce i leader delle correnti opposte: con tutti stringe rapporti che resteranno solidi, e da tutti si fa stimare. Correttore di bozze all’Unità di Pietro Ingrao e Alfredo Reichlin (quelli che stavano, si direbbe oggi, alla sinistra del partito), passa ben presto a lavorare nella sezione economica del Comitato centrale, al famigerato quinto piano di Botteghe Oscure, diretta da Giorgio Amendola. Che invece è alla testa della destra del Pci, quella dei cosiddetti “miglioristi”, tra le cui fila figurano anche Emanuele Macaluso e Giorgio Napolitano. Col primo i rapporti sono – e si manterranno – molto amichevoli; col futuro presidente della Repubblica un po’ meno. Lo ammetterà, ironico come sempre, lo stesso Parlato: “Una volta Amendola mi chiese: Ma perché ce l’hai con Napolitano? È così gentile, è tanto educato. E io: Apposta”.

Nel frattempo, un breve periodo di collaborazioni con la Banca Mondiale vale a metterlo un po’ in cattiva luce agli occhi di molti compagni. Anche se la rottura definitiva avverrà, com’è noto, nell’ottobre del ’69, quando il gruppo del Manifesto fu radiato dal Comitato centrale e Parlato – insieme a Pintor, Castellina, Natoli e Rossanda – è tra i più determinati nel decidere di fondare il giornale a cui per tutta la vita resterà legato. “Da direttore, in varie occasioni, e da padre nobile e guida spirituale, sempre”, ricorda chi in quella redazione ha lavorato per decenni. “Sembra retorica, ma è così: si è sempre fatto carico di tutti i problemi, soprattutto economici, a cui Il manifesto negli anni è andato incontro. Il mantra della redazione? Ai tempi d’oro, per portare a casa la giornata bisognava chiedersi sempre tre cose. Nell’ordine: Cosa pensa Rossana? Scrive Luigi? Dov’è Valentino?’. Ma se su Rossanda e Pintor potevano talvolta esserci dei dubbi, Parlato sapevamo per certo che era sempre disponibile. Anche solo per telefonare a un collaboratore irreperibile, anche per contattare un ministro o un parlamentare, che ovviamente a lui rispondevano subito”.

Dal Manifesto Parlato si allontana nel dicembre del 2012: l’ultimo tra i fondatori a decidersi al grande addio. Lo fa con una lettera indirizzata all’allora direttrice, Norma Rangeri. “Quel che state facendo per il rilancio del giornale non mi convince affatto”, scrive. “Dopo più di 40 anni sono fuori da questo Manifesto che è stata tanta parte della mia vita”. Per lui, però, resterà sempre quello “il giornale”: lo chiamava così, senz’altri attributi. Ma parlava con tutti, anche con i quotidiani del centrodestra, anche quando la cosa risultava sgradita ai suoi amici. È successo anche di recente, nel dicembre scorso, quando Parlato si è concesso a il Giornale – nel senso del quotidiano di Alessandro Sallusti – per un’intervista, replicando poi ai malumori di qualche conoscente con una battuta che la dice lunga sulla sua autoironia: “Mi hanno detto che il colloquio sarebbe finito sul giornale. E io inevitabilmente ho pensato al Manifesto”.

Due volte sposato, con Clara Valenzano prima e con Delfina Bonada poi, tre volte padre. Fedele ai suoi ideali giovanili, ma sempre convinto della necessità di non perdere contatto con la realtà del proprio tempo, negli anni della Seconda Repubblica guarda con simpatia a Romano Prodi. Non a Massimo D’Alema, che invece critica più volte. È al Manifesto di Parlato che il segretario del Pds nel 1995 dichiara, con una frase poi destinata a rimanere celebre: “La Lega è una costola della sinistra”. Più di tutto, al leader della Quercia Parlato rimprovera la decisione di bombardare il Kosovo, durante la sua permanenza a Palazzo Chigi. Ne nascono scintille, ma in seguito i rapporti tornano piuttosto cordiali.

Fumatore accanito, protesta contro “la liberticida” legge Sirchia: “Non escludo che, dopo le sigarette, si passi a vietare tutto il resto”. Chi lo ha incontrato, negli ultimi mesi, lo ricorda acciaccato ma apparentemente in buona salute. E sempre lucidissimo nelle sue provocazioni. Non tanto il suo No convinto al referendum sulla riforma costituzionale, quanto piuttosto la sua scelta di votare per Virginia Raggi alle comunali di Roma del 2016. Scelta di cui poi si era pentito, ammettendolo con la solita franchezza. “È stata la priva volta che ho tradito la sinistra”, aveva detto spiegando quella decisione. Poi aggiungerà: “Sarà anche l’ultima”.

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Il Manifesto | 03.05.2017

L’ultimo sorriso di Valentino Parlato

Valentino Parlato. Se n’è andato ieri mattina all’età di 86 anni, il fondatore e più volte direttore del manifesto. La camera ardente sarà allestita venerdì 5 maggio dalle 15 presso la Protomoteca del Campidoglio, dove alle 17,30 si terrà la cerimonia funebre

«Valentino sorride». Ai parenti, agli amici e ai compagni di una vita che per primi sono accorsi all’ospedale Fatebenefratelli appena appresa la notizia della sua morte, Valentino Parlato sembra riservare uno dei suoi più ironici sorrisi.

Se n’è andato ieri mattina intorno alle 10, ad 86 anni, il fondatore e più volte direttore del manifesto, dopo una notte di coma e ventiquattr’ore di ricovero. Lieve, come è sempre stato.

Sono arrivati in tanti ad abbracciare sua moglie Delfina Bonada e i suoi figli, Enrico, Matteo e Valentina. Ma sono i più intimi: nessuna presenza istituzionale, nessun saluto formale. Lacrime, sorrisi, abbracci. Tra gli amici di una vita, i compagni della vecchia e della nuova “famiglia comunista”, quelli del collettivo del manifesto degli esordi e dell’attuale.

Si stringono tutti attorno a Luciana Castellina, la «sorella» con la quale Valentino Parlato ha condiviso oltre mezzo secolo di storia. Attoniti, Aldo Tortorella, l’amico di sempre, Chiara Valentini, Gianni Ferrara, Filippo Maone, Famiano Crucianelli, Enrico Pugliese, Luigi Ferrajoli, Vincenzo Vita, Nichi Vendola, Adriana Buffardi, Lia Micale.

Massimo D’Alema entra nella piccola sala mortuaria dell’ospedale sull’Isola Tiberina per un saluto, commosso al ricordo di quella figura che gli appariva quasi mitica quando, all’età di dieci anni, lo incontrava in casa, ospite dei suoi genitori. Fu allora che cominciò ad ammirarlo.

«Sono qui come amico e come compagno, ma soprattutto perché mai come oggi l’Italia avrebbe avuto bisogno di eretici come lui», dice commosso un anziano signore piegato sul bastone che vuole essere identificato solo come Guido, «uno che fa pasquinate». «È stato tra i migliori uomini del Novecento», sospira il professor Michele Padula che fece parte del collettivo del manifesto fino al 1978. «Tra le tante virtù che aveva Valentino, ve n’era una specifica politica e una umana – ricorda Padula – Era attento alle questioni sociali, oltre che economiche, e aveva la capacità di cogliere nel Mezzogiorno le contraddizioni moderne e quelle del passato. Ma soprattutto Valentino sapeva accogliere le persone. Non con le parole, a lui non servivano: lo faceva con la sua stessa presenza».

Nelle ultime settimane aveva finalmente cominciato a lavorare su un progetto a cui aveva pensato a lungo: un libro sulla sua terra natia, la Libia. Lo avrebbe scritto insieme al suo secondogenito, Matteo, giornalista Rai. Da Tripoli, dove nacque il 7 febbraio 1931, venne espulso a vent’anni, reo di aver tentato di fondare il Pci tripolino.

«Avevo 16 anni quando nei primi anni ’50 tentammo di aprire una sezione del Pci a Tripoli, insieme ad un professore di greco e ad un compagno arabo», racconta l’economista e giornalista Enzo Modugno, che si definisce «un compaesano» di Parlato. «Purtroppo la polizia se ne accorse e loro furono espulsi. Io no perché ero minorenne. Quando Valentino arrivò a Roma, Togliatti gli diede un posto a Botteghe oscure. Lo rincontrai solo molti anni dopo».

Si sono riabbracciati qualche mese fa, durante la conferenza di Roma sul comunismo e le celebrazioni del 1917, nel centro sociale Esc. «Era tra i migliori giornalisti d’Italia – s’infervora Enzo Modugno – Altro che Bocca e Montanelli!. A loro una volta mandò a dire: “Questa borghesia è illuminata finché qualcun altro paga la bolletta della luce”».

L’ultimo saluto

Chi vorrà dare l’ultimo saluto a Valentino Parlato potrà farlo ancora questa mattina dalle 8 alle 12 presso la morgue dell’ospedale Fatebenefratelli, sull’Isola Tiberina. Dalle 15 di venerdì 5 maggio invece sarà allestita la camera ardente presso la Protomoteca del Campidoglio, dove alle 17,30 si terrà la cerimonia funebre.

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Il Manifesto | 03.05.2017

Parlato, la generosità come modo di essere

Il ricordo. Un economista nutrito di Settecento

Rossana Rossanda

Si è spento ieri notte, colpito da un malore improvviso, Valentino Parlato, il nostro amico e compagno più vicino, uno dei fondatori del gruppo del Manifesto e di questo giornale assieme ad Aldo Natoli, Lucio Magri, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Eliseo Milani e chi scrive.

Del giornale è stato parecchi anni direttore, e soprattutto vigile amico del suo destino, salvatore nelle situazioni di emergenza, oltre che naturalmente collaboratore per lungo tempo.

Valentino era nato in Libia e la sua entrata nel giornalismo italiano è stata la stessa cosa della sua adesione al Partito comunista italiano, finché non fu vittima anche egli della cacciata di tutto il gruppo del Manifesto per non essere d’accordo con la linea imperante fra gli anni sessanta e settanta. Aveva cominciato a collaborare a Rinascita assieme a Luciano Barca ed Eugenio Peggio, in quello che fu forse il più interessante periodo della politica economica e sindacale comunista, e il culmine della polemica sulle «cattedrali nel deserto», ma negli stessi anni tenne uno stretto collegamento con Federico Caffè e Claudio Napoleoni.

Tuttavia non si può limitare la sua cultura alla scienza economica; nutrito di letture settecentesche, si considerò sempre un allievo di Giorgio Colli e di Carlo Dionisotti. Portò questa sua molteplice cultura nella fattura del manifesto e nel propiziargli i collaboratori, della cui generosità si è sempre potuto vantare.

Sempre per il manifesto seguì le grandi questioni della produzione italiana (rimase celebre la sua inchiesta sul problema della casa); ma quello che lo caratterizzò in anni nei quali alle prese fondamentali di posizione nella politica del paese si accompagnarono spesso dolorose rotture, fu la grande apertura alle idee altrui, una generosità mai spenta, un vero e proprio modo di essere e di pensare che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua attività nel giornalismo.

L’aver militato per diversi anni in Puglia con Alfredo Reichlin lo aveva legato per sempre alla questione del Mezzogiorno.

Ma Valentino è stato soprattutto una specie di nume protettore del giornale, chiamato a salvarlo in ogni situazione di emergenza, pronto a lunghe attese per essere ricevuto nelle stanze ministeriali al fine di ottenere le avare sovvenzioni sulle quali il giornale ha potuto fondarsi. Tutti gli incidenti che potevano occorrere a un’impresa avventurosa e senza precedenti come la nostra ebbero in lui un dirigente e un mediatore saggio.

La sua presenza e capacità mancheranno a chi lo ha conosciuto, qualche volta perfino impazientendosi della sua benevola tolleranza per chi non la pensava come lui e come noi.

Del gruppo iniziale siamo rimasti molto pochi nel giornale mentre più vasta è stata la seminagione nei rari settori della Sinistra sopravvissuta alla crisi di questi anni.

Anche sotto questo profilo la perdita di Valentino Parlato sarà assai dura. Per non parlare del venir meno della sua amicizia ed affetto per chi, come noi, cerca ancora di stare sulla breccia.

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