16. Februar 2016 · Kommentare deaktiviert für Berlinale 2016: Applausi per “Fuocoammare” · Kategorien: Italien, Mittelmeer, Video · Tags:

Quelle: La Repubblica

Grande successo per l’unica opera italiana presente al festival. L’intervista a Gianfranco Rosi, regista del documentario che racconta la tragedia dei migranti a Lampedusa

Poca, pochissima Italia alla Berlinale, ma quando arriva strappa applausi. Almeno è stato così per Gianfranco Rosi, regista già vincitore inaspettato qualche anno fa del Leone d’Oro a Venezia con Sacro Gra, torna sul grande schermo con un documentario girato interamente a Lampedusa: basta solo il nome dell’isola per capire tutto. Ai tedeschi il film è piaciuto molto, un film come lo ha definito Rosi “politico a priori”. Fuocoammare, che prende il titolo da una vecchia canzone nata nell’isola, è di fatto per noi italiani un pugno sferrato allo stomaco che però non fa poi così male, poiché di immagini di migranti morti, inscatolati dentro barche improbabili, di bambini disidratati, uccisi dai gas di scarico dei motori dentro i barconi, di famiglie distrutte, siamo raggiunti continuamente, quasi fosse una macabra colonna sonora scandita dal segnale orario della radio. Che i giornalisti stranieri presenti a Berlino abbiano dato voti molto alti a Fuocoammare, conferma, come se avessimo bisogno di una cartina tornasole che il dramma dei migranti che parte dalle coste libiche verso l’isola di Lampedusa è stato per troppo tempo un dramma che l’Unione Europea e il mondo non hanno prestato abbastanza attenzione e che ora a fatto compiuto si cerchi una soluzione che continua a non arrivare. Rosi sceglie di raccontare, come lui stesso lo ha definito “l’olocausto del nostro secolo” da un lato attraverso la vita quotidiana di Samuele, un giovane ragazzino lampedusano di 12 anni, dall’altra attraverso le storie di altri personaggi quali lo zio pescatore di Samuele, la zia Maria o il dj Pippo che ha recuperato proprio la canzone Fuocoammare dal nonno. Tutti, spettatori e testimoni, partecipi e inconsapevoli, di una tragedia contemporanea per la quale non si trova soluzione. Fuocoammare arriverà nelle sale in Italia il 18 febbraio prossimo.

Quanto è rimasto a Lampedusa? E come si è sentito accolto?
“Quasi un anno tra una cosa e l’altra, il tempo necessario per comprendere l’isola, i suoi abitanti, le sue abitudini ed essere allo stesso tempo testimone di questa tragedia. L’Isola di Lampedusa è fantastica, anche troppo forse, quando me ne sono andato avevo 10kg in più. A parte questa nota simpatica, Lampedusa accoglie tutti da decenni, non è qualcosa che nasce oggi. Come hanno accolto me continuano ad accogliere i migranti, l’unico cambiamento che c’è oggi, rispetto ad una volta, è che prima l’arrivo di tutte queste persone non era istituzionalizzato. Ricordiamoci poi che a Lampedusa, come mi hanno spiegato i suoi abitanti, “siamo tutti pescatori”, e i pescatori accolgono tutto quello che viene dal mare”.

A Lampedusa c’è ancora voglia di condividere questa tragedia con l’esterno?
“Certo. Pietro Bartolo, direttore dell’ASL Locale, (intervenuto a Berlino in una emozionante conferenza stampa) mi ha dato una chiavetta usb, piena zeppa di materiale dal 1991 ad oggi. Il periodo da quando il medico ha iniziato a lavorare sull’isola assistendo a tragedie su tragedie. “Hai il dovere di fare questo film”, mi disse Pietro e così è stato, includendo il medico tra i protagonisti di Fuocoammare“.

Rosi è regista e allo stesso tempo cameraman solitario in questo documentario: come è stato filmare quelle scene così crude e forti, senza filtri?
“Non è stato facile, a volte il senso di pudore che avevo mi metteva davanti a domande difficili, se filmare o meno, se raccontare quello che stava succedendo davanti ai miei occhi o spegnere la telecamera. Quando ci siamo trovati di fronte ad una tragedia così forte, 150 cadaveri nella stiva di una delle tante barche della speranza, il comandante della marina mi ha detto “Devi filmare questa cosa, bisogna che tu testimoni quello che siamo vivendo qua”. In quel momento per me il film si è chiuso ho capito che era arrivata la chiave di lettura finale del mio racconto. Non ho mai girato in vita mia in modo così diretto, una scelta immediata tra raccontare o meno. Fortunatamente con l’equipaggio sulla nave militare si è creato un buon rapporto, ho trovato un supporto morale molto forte”.

Fuocoammare è un vero e proprio documentario, non c’è un suo intervento nelle scene?
“Assolutamente no. Con Samuele non c’è mai stato nulla di preparato per esempio, abbiamo iniziato a conoscerci e poi a passare del tempo assieme. Poi piazzavo la telecamera dove per me c’era una scena che poteva raccontare qualcosa e aspettavo. Ci vuole tanta pazienza, non c’è un copione, bisogna saper guardare dentro l’obiettivo della cinepresa”.

Il montaggio è stato importante quindi.
“Fondamentale direi. Il mio montatore per meglio ambientarsi con quello che filmavo si è trasferito qua a Lampedusa con me ad editare il girato, avevo bisogno che comprendesse il luogo e i suoi abitanti, l’atmosfera. Penso sia stata una scelta giusta. Poi a gennaio, mentre stavamo finendo montare è arrivata la chiamata dal Festival di Berlino“.

Come sono cambiati gli sbarchi di oggi rispetto a quelli di un tempo?
“Una volta affrontavano l’attraversata sapendo che c’erano 6-7 giorni di viaggio, mentre oggi con le molteplici missioni di soccorso vengono buttati dentro queste bagnarole e lasciati a se stessi per dei viaggi che durano meno, anche se in condizioni molto più rischiose paradossalmente”.

Quale può essere la motivazione per arrivare a percorrere un viaggio così rischioso?
“Lo spiega bene uno dei nigeriani che parla nel film e la chiave sta tutta in una parola “forse”. Se fossero rimasti nel loro paese o in Libia, sarebbero sicuramente morti, mentre percorrere seppur in modo così rischioso l’attraversata su questi barconi consegna loro ancora uno spiraglio di speranza, quel “forse moriremo” è la differenza tra una morte certa nella propria terra”.

In Italia siamo bombardati da immagini di sbarchi, di reportage dalla Libia, di testimonianze, di documenti su quanto accade eppure siamo inermi di fronte a questa tragedia: come si può cambiare le cose?
“La politica non ha ancora fatto abbastanza, c’è necessità che non solo l’Europa, ma il mondo intero capisca che bisogna fermare questo olocausto dei nostri giorni, non è abbastanza quello che si è fatto. Il mio ruolo è stato quello di documentare e portare di fronte al pubblico quello che ho potuto vedere”.

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