26. Dezember 2016 · Kommentare deaktiviert für „Strage di Berlino: Il soldato dell’ISIS è nato qui“ · Kategorien: Lesetipps

Quelle: ADIF | 24.12.2016

Prendo integralmente, almeno per ora, la ricostruzione ufficiale sulla strage di Berlino e sul suo autore presunto… Anis Amri, “l’attentatore tunisino” come rimarcano tutti i titoli di giornale per permettere ai megafoni della xenofobia di speculare bene sulla nazionalità. Straniero, arabo e musulmano.
E anch’io ripenso alla sua generazione, pure se ogni generalizzazione è una falsificazione. Ma ne ho conosciuti molti, al di qua e al di là del mare. I giovani tunisini arrivati nel 2011 dopo la rivoluzione contro Ben Ali, quando la via del mare costava meno ed era relativamente meno mortale perchè era caduto il gendarme cui l’Europa aveva delegato il controllo delle frontiere contro i suoi stessi cittadini.

Arrivarono in quell’Occidente che dopo un’iniziale spiazzamento aveva deciso di sponsorizzare le primavere arabe nel “nome della democrazia” e poi di cavalcarle e infine di militarizzarle e strumentalizzarle, armando, sostenendo e finanziando insieme a Turchia ed Arabia Saudita le formazioni jhadiste, nella speranza di destabilizzare i regimi più scomodi ai propri interessi. Così in Libia e in Siria la rivolta veniva presto inghiottita da una sanguinosa guerra internazionale, mentre in Egitto l’alleato americano benediceva il colpo di Stato e in Tunisia procedeva la normalizzazione.

Ma nel 2011 migliaia di ragazzi di questo paese dall’età media giovanissima attraversarono il Mediterraneo come primo esercizio di una ritrovata libertà. E non trovarono accoglienza. I giovani esaltati sui media per la “primavera dei gelsomini”, una volta attraversato il mare si trasformavano semplicemente in clandestini. Leggo che Anis Amri, che aveva all’epoca solo 18 anni, è stato quattro anni in galera per aver partecipato al suo arrivo a una rivolta contro la reclusione nel cpt di Lampedusa. Secondo i servizi di sicurezza si è “radicalizzato” in carcere: Anis “lo stragista” non è ragionevolmente l’adolescente imbarcato da Sousse, da Sfax o da qualunque punto sperduto lungo la costa meridionale della Tunisia. Il soldato dell’ISIS l’abbiamo formato qui, l’abbiamo formato anche noi. Non è ovviamente un alibi per niente e per nessuno, solo un dato di fatto.

Si ribellarono in tantissimi cinque anni fà, in quasi tutti i centri di detenzione costruiti o improvvisati nell’Italia Meridionale. Chi impara dalla vita l’alfabeto della rivolta poi non lo dimentica facilmente. Nella ex caserma “Andolfato” di S.M. Capua Vetere, trasformata in CIE nello spazio di un mattino, in centinaia furono costretti a vivere chiusi nelle tende di quel carcere improvvisato e a pisciare nelle bottiglie. Le stesse bottiglie che poi lanciarono contro i poliziotti nella rivolta finale in cui il campo prese fuoco. In poche settimane erano passati dalla crisi di astinenza da wifi a scambiare le scarpe per due pacchetti di sigarette. Molti scapparono. Avevano le ali ai piedi e una benzina speciale nella mente, la stessa che avevamo intuito ascoltandoli e intervistandoli in Tunisia, mentre cercavamo di capire come funzionasse una rivoluzione senza leader e senza un partito. Colti e orgogliosi i giovani della capitale e delle altre città della costa, più arrabbiati quelli del sud marginalizzato e povero. Tutti trasmettevano un’energia contagiosa anche se non si capiva come canalizzarla. Sidi Bouzid, la città martire della rivoluzione, dove la sede del partito di potere, l’RCD, fu più volte data alle fiamme, dopo meno di un anno votò in massa e paradossalmente un ambiguo personaggio vicino allo stesso RCD: una specie di Mastella locale. Nella speranza che la clientela portasse quel cambiamento sociale che la rivolta per la libertà (e per il pane) non era riuscita a conquistare. Nelle piazze di quella piccola città incontrammo le madri che mostravano al vento e alle telecamere fotografie di figli partiti e scomparsi, inghiottiti dal mare, dalle prigioni o dalla malasorte. Storie di un sud come il nostro, come i tanti sud del mondo.

Chissà se Anis Amri proveniva da una di queste realtà. Magari avrà avuto bisogno di una bandiera per portare a sintesi il cul de sac della sua vita e ha trovato una delle peggiori disponibili. E’ diventato l’assassino capace di uccidere a freddo un camionista colpevole di nulla e lanciarsi con un tir su una folla indistinta che buttava i suoi soldi nel rito consumistico del Natale. Alla fine è morto ammazzato di notte in una ex periferia operaia di Milano, metafora della desertificazione sociale che ha tolto agli Anis locali un riferimento per la propria rivolta. Difficile che si aspettasse qualcosa di molto diverso. Quelli come lui, almeno, non brindano sulle proprie vittime dai salotti della borsa di Wall Street.

In centinaia di migliaia, milioni invece resistono a questo tempo oscuro, cercando semplicemente di sopravvivere o magari lottando per una nuova primavera o rincorrendo sulle strade del mondo un’altra opportunità. E Anis Amri non li rappresenta malgrado quello che cercheranno di dirci il Giornale o Libero (o Repubblica). Ci manca però un alfabeto in comune, che non può non partire dal riconoscimento. E dalla reazione all’ingiustizia, al razzismo e alla guerra.
Socialismo o barbarie si diceva quando sembrava un po’ più facile per i poveri capire qual’era la propria parte nel mondo. Sembrava… Chi pensa però di risolvere le contraddizioni aperte da politiche criminali continuando a bombardare in nome del petrolio o facendo del Mediterraneo un cimitero si illude di svuotare il mare con un cucchiaio e consegna anche la sua vita a un futuro di paura e di rancore, in balia dei mediocri azionisti della xenofobia e del razzismo. A giudicare da quello che scriveva sui social la pensava così Fabrizia di Lorenzo, una vittima della strage di Berlino (e di Mosul, di Baghdad, di Kobane, di Aleppo, di Djiarbakir, di Yarmouk.. ricordiamo solo i morti che ci assomigliano o che stanno strumentalmente nell’agenda setting del mainstream). La mia forma di rispetto per lei è ritenere che lo penserebbe ancora.

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