18. November 2014 · Kommentare deaktiviert für Mit Handys unabhängige SOS-Netze aufbauen – La Repubblica · Kategorien: Alarm Phone, Italien

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„Con un cellulare captiamo gli sos in mare“

di RAFFAELLA COSENTINO

CATANIA – C’è da scommettere che molte bambine nate da rifugiati siriani in Europa si chiameranno Nawal o Agata. In quei nomi porteranno scritta la storia del passaggio dall’Italia delle loro madri, a volte già incinta quando furono salvate dalla morte in mare.

Nawal Soufi e Agata Ronsivalle sono due siciliane che da un anno e mezzo dedicano ogni giorno della loro vita ad aiutare i siriani di passaggio sull’isola. Da sole, in modo volontario, senza far parte di alcuna associazione. „Chiamerò mia figlia con il tuo nome“, hanno promesso loro in tanti passati da Catania, come segno di riconoscenza. Il motivo di tanta gratitudine è che ormai a migliaia, famiglie, giovani e bambini devono la loro vita a Nawal, che vive a Motta Sant’Anastasia e parla l’arabo. Che raccoglie gli Sos dai barconi e attiva i soccorsi, facilita le comunicazioni fra la gente in mare e la sala operativa della Guardia Costiera a Roma, che ancora non ha un interprete arabo.

Questa è una storia di amicizia internazionale e di social network, di ideali e di aiuto concreto ai tempi delle stragi nel Mediterraneo.

Lampedusa sarà la nuova porta d'Europa

Nawal Soufi e Agata Ronsivalle

Nawal è arrivata in Italia dal Marocco, quando aveva un mese di vita e da 26 anni sta in Sicilia con la sua famiglia di otto persone: madre, padre e cinque tra fratelli e sorelle. Studia Relazioni internazionali all’università e a volte fa l’interprete per il tribunale. Non ha ancora la cittadinanza italiana perché i genitori non raggiungono i livelli di reddito necessari. Solo la madre è riuscita a conquistarla dopo oltre un quarto di secolo di vita in questo paese. Così Nawal è ora figlia di una cittadina italiana ma lei stessa non è riconosciuta come italiana.

Agata invece fa l’operatrice sociale e di anni ne ha 30. „Nawal mi ha travolto quando l’ho conosciuta alla Caritas e si portava dietro la bandiera siriana“, racconta sorridendo. E così ha deciso di aiutarla. Loro due sole e migliaia di persone da soccorrere.

Su Facebook, Nawal ha seguito ogni momento della rivoluzione siriana, quella iniziale, libera e democratica, per la caduta del regime di Assad. Ha conosciuto, attraverso i post e i video in arabo i tanti massacri di civili e di bambini. Ha creduto profondamente in quella Primavera. „In quei ragazzi nelle piazze, con le mani in alto, musulmani e cristiani insieme pacificamente, massacrati dalla dura repressione – ricorda citando nomi e cognomi – perché in Siria chi ha un telefono e filma ha una pena di morte sulle spalle“. Nawal considera il conflitto siriano „l’olocausto della mia generazione“ e si sente legata alle sorti di quel popolo.

La Primavera tradita
. Dai social network è passata a organizzare una raccolta di farmaci da inviare in Siria e a marzo 2013 la sua famiglia non ha potuto fermarla quando ha deciso di andare di persona a portare gli aiuti fino ad Aleppo, entrando dal confine turco. Come Vanessa Marzullo, la giovane di Brembate ancora prigioniera in Siria con Greta Ramelli. Le due giovani si sono conosciute durante le raccolte di aiuti umanitari. E Nawal si commuove quando la nomina, ma ricaccia indietro le lacrime dagli occhi. Perché deve essere forte e ha troppe cose da fare.

Giorno e notte il suo telefono squilla. La chiamano per lanciare l’SOS dai barconi in difficoltà nel mar Mediterraneo. Si è organizzata con una Pagina Facebook di SOS e poi il suo numero se lo passano tutti, in mezzo al mare, tra i parenti in Svezia o in giro per il mondo, per avere notizie dei loro cari. E quando c’è un naufragio non si dorme, cercando di aiutare, di passare informazioni, di contattare le autorità per sapere se ci sono notizie.

Usano WhatsApp per registrare messaggi vocali e comunicare in modo più immediato. Così le chiedono aiuto. E lei risponde sempre. Perché non dimenticherà quello che ha vissuto ad Aleppo per quindici giorni. „Andavamo in macchina o giocavamo a calcio con dei bambini e le bombe cadevano intorno a noi – racconta – È l’assurdità della guerra, l’essere umano si abitua a tutto. Morire è solo passare al di là, si può passare facendo del bene e lasciare un’impronta o non fare nulla di significativo in questo mondo“. Poi è tornata in Sicilia, ma stare vicina ai siriani è stato più facile „perché la Siria è arrivata qui“.

I corpi sulla battigia. Il suo impegno nei soccorsi a terra è iniziato con il naufragio di Catania del 10 agosto 2013. Sei corpi sulla battigia della spiaggia della Plaia, fra cui un ragazzo di circa 14 anni. I sopravvissuti furono portati in un centro temporaneo alla scuola Andrea Doria e sottoposti all’identificazione forzata. Poi scapparono dal centro e arrivarono alla stazione di Catania, avevano bisogno di aiuto perché cercavano di lasciare l’Italia.

Da allora, a migliaia tra i siriani sbarcati in Sicilia in un anno e mezzo, sono passati dalla stazione ferroviaria di Catania in fuga verso il Nord Europa. Il „lavoro“ di Nawal e Agata consiste nell’impedire che cadano preda degli scafisti di terra, sgherri che approfittano della situazione per far scucire centinaia, se non migliaia di dollari alle famiglie siriane, acquistando per loro, a prezzi maggiorati, i biglietti del treno, le sim italiane o il cambio della valuta. „Agli scafisti di terra Nawal ha rovinato la piazza“, spiega Agata e per questo hanno ricevuto minacce. A Catania non ci sono strutture per le persone in transito, a differenza di quanto organizzato ad esempio dal comune di Milano, così Nawal e Agata sono l’unico punto di riferimento. Il cuore della loro attività è la stazione ferroviaria e ormai conoscono ogni palmo del variegato mondo umano che si muove intorno a quel posto.

„Siamo impegnate a tempo pieno – continua Agata – li accompagniamo all’ufficio cambio per non essere derubati, li aiutiamo come possiamo a fare il biglietto. Sappiamo che se non ci siamo noi, c’è il delinquente di turno che se ne approfitta, gente senza scrupoli che è capace perfino di chiedere una tariffa da 10 euro per accompagnare la gente a piedi fino al treno. Ma noi li abbiamo sconfitti“.

Agata e Nawal accolgono con il sorriso chi ha scampato la morte in guerra e in mare, gli danno abiti puliti e qualcosa da mangiare, ottenuti tramite le donazioni, li aiutano a chiamare le famiglie per comunicare che sono salvi. „Qui abbiamo visto di tutto – racconta ancora Agata – le persone con i vestiti sporchi di sale, senza scarpe, con i bambini senza pannolini. Prima di Mare Nostrum c’era chi arrivava a Catania dopo sette giorni di navigazione senza mangiare. Dai centri escono così come sono, anche con il pigiama, e se ne vanno“.

Stanca ma felice. l rapporti con le istituzioni non è semplice. „La polizia mi ha detto: signorina lei potrebbe passare i guai per quello che fa – dice Nawal – Ma io ho risposto che per me è omissione di soccorso“. La famiglia la supporta, ma è preoccupata per lei. „Devi mangiare, devi dormire, le dicono“. Nawal è magrissima. „L’esigenza di fare qualcosa per l’altro umanamente ti sazia, perché corriamo tutto il giorno e ci dimentichiamo di mangiare“, dice fra una telefonata e l’altra.

„E‘ una stanchezza che non si può raccontare – dice Agata – ma anche piena di gioia perché i siriani sono un popolo splendido, educati, gentili, il bene che gli fai se lo ricordano per sempre. E io non ne posso più fare a meno, nonostante la fatica, perché così davvero mi sento un essere umano“.

Intanto Agata e Nawal hanno trasformato ogni angolo dei dintorni della stazione di Catania nel loro ufficio ambulante. Chiedono la cortesia alle biglietterie delle ditte di autobus per metterci temporaneamente i sacchi di vestiti ricevuti con le donazioni. E una volta hanno dimenticato per tutta una giornata 100 uova bollite preparate dalla mamma di Nawal presso un venditore ambulante senegalese, che gliele teneva sotto il suo banchetto. Al negozio di Kekab sono clienti fisse, insieme ai siriani in transito. „Non è vero che ti trasformi in una macchina con la troppa sofferenza; al contrario, diventi più sensibile – conclude Nawal – Spesso ci guardano con sufficienza perché non siamo un’associazione. Ma io voglio poter aiutare 500 persone in mare senza rendere conto a nessuno“.


 

L’odissea di Jaib, 6 anni, salvato dagli attivisti

di RAFFAELLA COSENTINO

ROMA – Con l’annunciata chiusura di Mare Nostrum, si è attivata una rete informale di attivisti che in Italia e in Europa stanno cercando di monitorare quello che succede alle frontiere europee. Il gruppo informale Human Rights No Border  utilizza i social network per attivarsi in soccorso dei migranti. Alessandra Ballerini, legale, Gabriella Guido, Cinzia Greco e Yasmine Accardo, attiviste, Fulvio Vassallo Paleologo giurista, sono alcune delle persone che da Genova a Palermo, dalla Sardegna a Gorizia, fanno parte di questa rete.  Quando arrivano delle segnalazioni di persone in difficoltà, in mare o anche negli scali aeroportuali, dove molti siriani arrivano spesso con documenti falsi perché è l’unico modo di fuggire dalla guerra, il gruppo si mette in comunicazione con avvocati, parlamentari, con Amnesty International e l’Unhcr o con la piattaforma online Watch the Mediterranean Sea. Anche Watch the Med cerca di monitorare le morti e le violazioni dei diritti dei migranti alle frontiere marittime dell’Ue e per questo ha attivato il numero 0033486517161, che, specificano, non è un numero di soccorso, ma un numero di allarme per supportare le operazioni di soccorso.

La guerra in Siria ci passa continuamente di fianco nelle vite delle persone in fuga che transitano dall’Italia in molti modi. Con il paradosso che chi si mette in mare affidandosi ai trafficanti, una volta salvato riesce solitamente a lasciare l’Italia alla volta del Nord Europa dove è diretto, mentre chi trova un modo per evitare i viaggi della morte, comprando un normale biglietto aereo, spesso viene respinto o trova sbarramenti negli aeroporti.

Dalla Svezia a Damasco. Come la storia del piccolo Abu Jaib, sei anni, arrivato a Fiumicino il 19 ottobre scorso da Damasco, dove viveva con la madre, il padre con le gambe amputate a causa dell’esplosione di una bomba e la sorella di 14 anni. Un altro fratello diciannovenne, da marzo 2014 vive in Svezia a casa di alcuni cugini che lo ospitano e lo fanno studiare. La madre di Abu, disperata, nel tentativo di salvare il suo piccolo era sul punto di metterlo sul primo barcone. Ma i cugini che vivono in Svezia da vent’anni e sono ormai cittadini svedesi hanno deciso di correre il rischio e di andare a spese loro a prendere il bambino fino al confine con il Libano. Tutto pur di non fargli vivere l’esperienza agghiacciante di un viaggio della morte con i trafficanti.

Dal Libano sono volati fino in Turchia e dalla Turchia dovevano raggiungere la Svezia facendo scalo a Fiumicino. Per fare viaggiare il bambino non hanno usato un passaporto falso ma quello, vero, di un altro bambino della stessa età, il figlio di uno di loro che somiglia molto ad Abu.

Agli arrivi internazionali dell’aeroporto di Roma, che doveva essere solo uno scalo aereo, la polizia di frontiera italiana li ferma. Il viaggio verso la salvezza si interrompe. I due adulti vengono arrestati con l’accusa di traffico internazionale di minori e portati in carcere a Civitavecchia. Il bambino resta con la polizia e se ne perdono le tracce. Nessuno sa più dove si trovi. Prima di essere privati di tutte le loro cose, i due siriani svedesi riescono a inviare con il cellulare un sms al fratello diciannovenne di Abu, che si precipita a Roma dalla Svezia. Il ragazzo rimane per due giorni all’aeroporto di Fiumicino e bussa inutilmente alla porta della polizia di frontiera, che non gli dà informazioni sul caso. Intanto, mentre è in viaggio dalla Svezia, contatta in qualche modo gli attivisti di Human Rights No Border, che si mettono sulle tracce del bambino, investendo del caso una parlamentare e anche l’Unhcr. Per giorni di questo bimbo non si riesce a sapere nulla, si comincia perfino a dubitare della sua esistenza. Fino a che la conferma che il bambino è al sicuro dopo il fermo a Fiumicino arriva agli attivisti di Human Rights No Border solo dall’ambasciata svedese.

L’intervento del giudice. Parallelamente, intanto, a Civitavecchia l’avvocato Rosita Gargiulo viene assegnata d’ufficio alla difesa dei due cugini siriani svedesi. „Vado in carcere il 22 ottobre per la convalida  – piega la legale  –  e il loro racconto era straziante, si capiva benissimo che non erano trafficanti di bambini. Li ho fatti parlare davanti al giudice, proprio per arrivare al suo cuore, perché questa è una storia che va al di là delle norme. Quei due avevano agito a fin di bene, da eroi. E ripetevano solo: noi vogliamo salvare questo bambino“. Riescono a convincere il giudice, che li libera.

„Usciti dal carcere non sapevano dove andare e nemmeno dove fosse Abu“, ricorda Gargiulo. E‘ a questo punto che l’avvocatessa, umanamente e profondamente toccata, sceglie di uscire dal suo ruolo e di mettersi in questa storia con tutta la sua famiglia. Insieme al marito Gianluca Marra, avvocato anche lui, e al loro figlio di sei anni, vanno a cercare il piccolo Abu.  Accompagnano i due siriani a Fiumicino e lì scoprono finalmente che il bambino è stato portato in un istituto di suore, ma senza un permesso non possono andare a prenderlo.
Allora l’idea vincente è di nominare tutore legale del bambino uno dei due cugini con il doppio passaporto siriano e svedese, il quale viene anche autorizzato dal giudice a prendere Abu e portarlo in Svezia.

„Non dimenticherò mai l’incontro straordinario fra il Abu e il fratello maggiore quando siamo arrivati dalle suore  –  racconta Rosita Gargiulo, ancora emozionata  –  gli si è appiccicato come un granchietto, con gli occhi spaventati ma felici“. Poi una nuova corsa in aeroporto a prendere il primo volo per la Svezia, convinti che l’autorizzazione del giudice sarebbe bastata.  „Ma lì abbiamo trovato un altro ostacolo  –  continua la legale – Alitalia ha detto che non si assumeva la responsabilità di imbarcare il bambino senza passaporto, perché se le autorità svedesi l’avessero respinto, la compagnia avrebbe pagato una multa di duemila euro. Allora abbiamo pensato anche a una macchina per arrivare in Svezia, ma non ce n’erano“. Il viaggio dei siriani finirà dopo 48 ore di treno. Da Termini a Bolzano, poi in Austria e da lì, frontiera dopo frontiera, fino a Malmo, a casa. Con l’avvocato Gargiulo sempre attaccata al telefono, con l’ansia di ricevere notizie a ogni passaggio di frontiera. „È stata un’esperienza toccante, emozionante  –  dice oggi l’avvocatessa – ci hanno insegnato tanto questi siriani. Sempre col sorriso sulle labbra, mai si sono sconfortati e ci hanno trasmesso una forza incredibile, sono delle persone meravigliose che ancora ci ringraziano“.


 

Resta solo la legge del mare

di FRANCESCO VIVIANO e ALESSANDRA ZINITI

PALERMO – Alla fine contano tutti sulla „legge del mare“: i profughi che affrontano la traversata nel Canale di Sicilia, innanzitutto. L’Europa, il governo italiano, gli uomini di Mare Nostrum e quelli di Triton. In assenza di un piano di intervento serio e responsabile dell’Unione Europea, in assenza di direttive chiare per chi opera in mare e a terra, l’unica cosa certa è che chi si trova più vicino a uomini, donne, bambini che tendono le mani (quando non si trovano già in acqua aggrappati alle vasche dei tonni o a rottami galleggianti) li prende a bordo. Come è successo lo scorso weekend quando, con condizioni di mare comunque difficili, sono stati in tremila a riuscire a raggiungere le coste siciliane.

E‘ stato il battesimo del fuoco per l’operazione Triton al suo passaggio di consegne con Mare Nostrum, con gli incrociatori norvegesi che pattugliano le acque entro le trenta miglia dalla costa. Ma, come probabilmente continuerà ad accadere sempre più frequentemente nelle prossime settimane, a farsi carico del più alto numero di migranti in difficoltà sono stati i mercantili di passaggio. Appunto nel pieno rispetto della legge del mare. Perché da ora in poi riprenderà a „funzionare“ come prima: con poche motovedette della Guardia costiera e pochissime navi della flotta di Frontex, coadiuvate da un solo mezzo aereo e da un elicottero, che saranno chiamate a muoversi partendo dalle basi di Lampedusa o Porto Empedocle e comunque muovendosi in acque territoriali.

Se, come è accaduto, nei giorni scorsi, dai barconi arriverà l’ormai consueta chiamata di aiuto alle sale operative italiane poco dopo aver lasciato le spiagge libiche di partenza, l’allarme verrà smistato a chi si trova più vicino, cioè quasi sempre mercantili che battono quelle tratte con i loro carichi di merci. E che, malvolentieri, senza avere a bordo né generi di ristoro per chi sta in mare né tantomeno medici e presìdi sanitari, saranno costretti a salvare centinaia di uomini, donne e bambini, deviare dalle loro rotte (con dispendio di tempo e spese che nessuno ripagherà) e avvicinarsi o ai porti siciliani nel frattempo indicati loro o al confine delle acque territoriali per i sempre difficili e rischiosissimi trasbordi sui mezzi militari.

Si andrà avanti così, nell’oblio collettivo e nell’irrisolto e forse irrisolvibile braccio di ferro tra l’Italia e i paesi europei che non intendono condividere il peso di un’operazione che deve continuare ad essere umanitaria e non certo di respingimento. Si andrà avanti così fino al primo „caso“ di rifiuto di soccorso in mare, come è purtroppo successo negli anni scorsi, quando Italia e Malta si sono rimpallate il dovere di recuperare migranti salvati da soggetti privati che poi ne hanno pagato spese e anche conseguenze penali. Si andrà avanti così fino alla prossima tragedia.“

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