14. Januar 2015 · Kommentare deaktiviert für Libyen: Neuorientierung westlicher Staaten? · Kategorien: Hintergrund, Libyen

Limes

L’Occidente in Libia deve evitare un errore di valutazione

di Karim Mezran e Nicola Pedde

Fallita la mediazione dell’Onu, alcuni paesi arabi (Emirati, Arabia Saudita, Egitto) spingono per un intervento militare contro „radicali e jihadisti“ del governo di Tripoli. Europa e Stati Uniti farebbero meglio a ignorare tali appelli.

Cosa può fare l’Italia per evitare la guerra civile in Libia

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Sembrano scarse, ad oggi, le possibilità di una rapida soluzione della crisi in Libia, alla luce anche dell’ultimo fallimento nella mediazione da parte delle Nazioni Unite.

Le speranze alimentate dalla conferenza di Madrid dello scorso 17 settembre e dal costante impegno dell’incaricato Onu Bernardino León si sono infrante dinanzi alla crescente violenza che a cavallo tra il 2014 e il 2015 ha sconvolto buona parte della Libia. Il vero problema su cui la comunità internazionale dovrebbe intervenire in modo più diretto e concreto è tuttavia quello della legittimazione delle forze politiche libiche.

La violenza è alimentata oggi da un’eterogenea compagine di milizie, espressione di interessi locali e tribali, con l’aggiunta di un’altrettanto variegata componente confessionale che include al suo interno sia le formazioni jihadiste sia quelle moderate. Ognuna di queste forze cerca di legittimarsi come espressione della volontà popolare e soprattutto come fautrice dello spirito rivoluzionario che ha abbattuto il precedente regime di Muammar Gheddafi. Ciascuna parte accusa l’altra di intenzioni restauratrici o di complicità con il jihadismo.

Il quadro politico è oggi diviso tra i sostenitori del cosiddetto governo di Tobruk, presieduto da Abdullah al-Thani e risultante dalle elezioni dello scorso giugno, e quello di Tripoli, presieduto da Omar al-Hassi e risultante dalla precedente Assemblea transitoria.

Secondo alcune interpretazioni, la sentenza della Corte Suprema libica dello scorso novembre avrebbe dichiarato nulle le elezioni dello scorso giugno, sconfessando in tal modo la legittimità del governo di Tobruk. Buona parte dell’Occidente si era tuttavia affrettata a riconoscerlo e sostenerlo, nell’intento di osteggiare il governo di Tripoli accusato da quello di Tobruk di essere in mano alle forze del radicalismo islamico e del jihadismo.

In realtà, il gioco delle reciproche accuse nasconde personalismi e tribalismi che la comunità internazionale dovrebbe contribuire a risolvere, invece che alimentare. Se è vero che in seno alle forze di governo di Tripoli sono presenti componenti islamiste, è anche vero che queste non sono tutte di estrazione radicale o addirittura jihadista. Indubbiamente sono presenti fazioni riconducibili alle frange più violente e ideologicamente radicali, ma non ne costituiscono il nucleo maggioritario.

Dall’altra parte, invece, il tentativo di delegittimazione è alimentato dall’ex generale Khalifa Haftar, personaggio assai discusso e dal passato poco limpido, privo di un forte sostegno sociale ma capace di aggregare gli interessi di buona parte della comunità internazionale (a cominciare dalle monarchie del Golfo e l’Egitto, che dalle prime è ormai fortemente dipendente). Haftar è stato abilissimo nel presentare alla comunità internazionale il problema libico come espressione di uno scontro tra le forze laiche e democratiche (le sue) e quelle jihadiste e autoritarie (le altre). Ha sfruttato la scarsa capacità di analisi europea e americana, ancora intrisa dell’islamofobia portata alla ribalta dal neoconservatorismo della presidenza Bush. Un macroscopico errore di analisi che complica una situazione già estremamente difficile.

La contrapposizione ideologica, così come ideata e impostata dal generale Haftar – le cui forze sono state promosse dal governo di Tobruk da semplice milizia al rango di esercito – ha l’effetto di radicalizzare la contrapposizione. Scontri durissimi sono in corso a Bengasi, dove le forze di Haftar stanno cercando di sconfiggere le milizie islamiste di Ansar al-Sharia, ma anche a Derna, dove alcuni dei gruppi più radicali hanno ufficialmente manifestato la propria adesione allo Stato Islamico (Is), facendo così il gioco di Haftar e gettando le basi per un sempre più consistente supporto della comunità internazionale al governo di Tobruk.

La situazione non è migliore a Ovest. Qui violenti scontri vedono coinvolte le brigate di Zintan legate ad Haftar e quelle di Misurata, espressione delle alleanze che governano di Tripoli. Le minoranze etniche dei Tebu – leali a Tobruk – impegnano costantemente le milizie di Misurata nel sud del paese, sebbene queste abbiano un controllo abbastanza capillare delle regioni occidentali, tanto da spingerle con audacia ad attaccare a Est le forze di Ibrahim Jadhran, che controllano alcuni importanti centri petroliferi. In quest’ottica, dunque, va letta la difficoltà nel trovare una soluzione politica in un quadro sempre più simile a una guerra civile e dominato da fazioni agguerrite e poco rappresentative degli interessi della popolazione.

Il fallimento a gennaio di ogni colloquio tra le parti, sotto l’egida delle Nazioni Unite nel cosiddetto quadro del Ghadames II, ha gelato i tiepidi entusiasmi di Bernardino León. Questi è stato costretto a rimandare sine die l’appuntamento, lasciando pieno spazio alle forze del parlamento di Tobruk per lanciare la loro offensiva politica sul piano internazionale. È stata infatti convocata d’urgenza su richiesta della Libia (o meglio, della sola componente di Tobruk) una riunione della Lega Araba, che ha ancora una volta puntato il dito sul problema del terrorismo e delle sue ramificazioni regionali, chiedendo alla comunità internazionale di intervenire.

La riunione della Lega Araba, tuttavia, rappresenta nulla più che un tentativo dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, sostenuti dall’Egitto, di coinvolgere la comunità internazionale in un’azione collettiva (non è chiaro chi la dovrebbe gestire) contro le fazioni islamiste libiche legate alla Fratellanza Musulmana. Esse sono considerate dai sauditi, dagli Emirati e dagli egiziani come la principale minaccia esistenziale insieme all’Iran.

Un crogiolo di interessi, quindi, mascherato dall’urgenza di un’azione contro il terrorismo che rischia di coinvolgere Europa e Stati Uniti in un nuovo, colossale, errore di valutazione. In questo quadro, tuttavia, l’Onu sembra ancora convinta di non intervenire militarmente, così come sancito in occasione della conferenza di Madrid dello scorso settembre. Anche la Francia ha fatto vistosamente marcia indietro, dichiarandosi contraria a ogni ipotesi di intervento unilaterale.

Si pone dunque il problema di come affrontare la crisi libica e fornire un contributo alla sua soluzione, nell’ottica della costruzione di un effettivo processo di riconciliazione nazionale. È necessario tuttavia per la comunità internazionale partire dalla consapevolezza di alcuni punti fermi. Il primo, e forse più importante tra tutti, è quello dell’insussistenza di un primato di legittimità tra le varie componenti in lotta. L’Europa e gli Stati Uniti non devono quindi cadere nella trappola ideologica di chi cerca di spingere il sostegno in direzione di una componete a danno dell’altra (o delle altre). Devono al contrario favorire in ogni modo l’espansione del tavolo negoziale e dei processi politici che sostengano l’inclusione e la rappresentatività delle più diverse componenti.

Il secondo presupposto è quello della consapevolezza circa l’insieme di interessi regionali che ruotano intorno alla Libia, spesso traslando al suo interno dinamiche di incompatibilità non autoctone. In particolar modo, l’ossessiva „caccia alla Fratellanza“ da parte di Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita non può e non deve in alcun modo trasformare la Libia in un terreno di scontro „per conto terzi“. La comunità internazionale deve agire con decisione contro le ingerenze esterne, riconoscendole e denunciandole senza esitazione e risolvendo il penoso imbarazzo generato dal silenzio sul catastrofico ruolo di alcuni attori regionali. Riconoscere la presenza e la legittimità delle forze politiche di ispirazione confessionale non solo è un’urgente necessità, ma anche l’unico vero modo per delegittimare le componenti radicali e jihadiste isolandole dal contesto politico e sociale del paese.

Il terzo punto consiste nel costruire un meccanismo di supporto internazionale che sia dotato dell’effettiva capacità di individuare e colpire gli individui e le organizzazioni coinvolte nella lotta armata, in accordo con la risoluzione 2174 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, al fine di indebolire i centri nevralgici che provocano instabilità e violenza. In assenza di una decisa azione in tal senso, la proliferazione di gruppi e organizzazioni del radicalismo islamico e non – spesso del tutto estranei al tessuto sociale libico – aumenterà esponenzialmente grazie alla facilità di ingresso e di localizzazione delle attività illecite.

Il quarto presupposto, infine, dev’essere quello di non ignorare la legittimità del quadro politico e istituzionale libico. Piaccia o meno alla comunità internazionale, la Corte Suprema libica ha dichiarato nulle le elezioni che hanno portato alla costituzione del cosiddetto governo di Tobruk, delegittimando in tal modo sia il sodalizio politico che quello militare di cui questo è espressione. Solo l’Italia e le Nazioni Unite sembrano tuttavia interessate a considerare questo fondamentale presupposto, opponendosi con decisione al sostegno unilaterale di alcune fazioni a danno di altre.

L’intento dovrebbe essere quello di favorire non tanto il governo di Tripoli, quanto ciò che resta di istituzioni create in un contesto decisamente meno conflittuale e più pluralista di quello che, viceversa, ha dato vita al governo di Tobruk.

Per approfondire: Tsunami in Medio Oriente, il bookpack di Limes

Karim Mezran è Senior Fellow presso il Rafik Hariri Center for the Middle East dell’Atlantic Council di Washington.

Nicola Pedde è direttore dell’Institute for Global Studies e presidente della Middle East and Africa Foundation.

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