12. November 2013 · Kommentare deaktiviert für Libysche Schüsse auf syrische Boat-people (11.10.2013) – Viel mehr Tote als bislang angegeben · Kategorien: Nicht zugeordnet

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Undercover di Fabrizio Gatti

C’è un altro barcone affondato dai libici

L’11 ottobre scorso sono stati due i pescherecci colpiti dalle raffiche di mitra delle motovedette. E il conteggio delle vittime accertate è molto più grave di quanto comunicato fino ad ora
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IL VIDEO DEL NAUFRAGIO
http://espresso.repubblica.it/attualita/…

Sono due i pescherecci carichi di profughi affondati dalle motovedette libiche l’11 ottobre. Del primo barcone colato a picco a 60 miglia a Sud di Lampedusa, l’unico di cui si sapeva finora, l’Espresso ha aggiornato il conto delle vittime, raccogliendo le testimonianze dei sopravvissuti siriani arrivati in Sicilia: circa 480 persone a bordo, 212 recuperate, almeno 268 i morti, tra cui sessanta bambini dei cento partiti con i loro genitori da una spiaggia vicino ad Al Zuwarah, in Libia. Del secondo naufragio, hanno parlato altri siriani soccorsi in mare nei giorni successivi e ora in Italia: il peschereccio, con almeno 400 passeggeri, quasi tutte famiglie in fuga dalla Siria, è stato colpito dalle raffiche di mitra e si è rovesciato al largo della costa nordafricana. Ancora non è possibile sapere quanti siano i morti e i sopravvissuti. E forse non si sapranno mai.

Di questo nuovo naufragio, una sigla che si firma “Gruppo di lavoro per i palestinesi in Siria” ha diffuso un breve video girato con un telefonino dal ponte di una motovedetta, probabilmente libica. Le immagini sono accompagnate dalla scritta in arabo: “Video della nave salpata dalla Libia l’11 ottobre 2013 e affondata nel Mediterraneo con circa 400 passeggeri”. Nelle riprese si vedono molte persone ancora sul grosso peschereccio nel momento in cui si rovescia. Altre finite in mare vengono soccorse da una piccola barca a motore, forse una lancia messa in acqua dalla nave militare. Alcuni siriani arrivati a Lampedusa e in Sicilia dopo l’11 ottobre raccontano che quella mattina, non lontano dalla costa, i libici hanno sparato raffiche di mitra a un grosso peschereccio su cui i trafficanti avevano ammassato almeno 400 persone. Colpita sui fianchi e al motore, l’imbarcazione si è inclinata di quarantacinque gradi sul lato destro e nel giro di pochi secondi si è rovesciata. Alla fine è affondata.

I militari libici avrebbero soccorso e riportato in Libia molti profughi. Gli stranieri sorpresi a emigrare illegalmente, anche se si tratta di famiglie con bambini, vengono arrestati e rinchiusi in carcere. Per essere liberati devono raccogliere denaro attraverso i familiari in Europa o in America e pagare tremila dollari ciascuno. Una volta saldato il debito, i profughi non sono liberi ma vengono riconsegnati ai trafficanti. Le persone, comprese donne e bambini, sono suddivise per nazionalità e ammassate in capannoni da dove è impossibile uscire: se non pagando il nuovo costo di un viaggio verso l’Italia, dai 1.600 ai 3.000 dollari. Questo racconta chi è arrivato vivo a Lampedusa o in Sicilia.

Non è stato possibile verificare in Libia la provenienza del video su questo secondo naufragio. Le varie testimonianze comunque coincidono. I siriani, che hanno rivelato la nuova tragedia agli operatori di alcune organizzazioni umanitarie, hanno chiesto che non siano rivelati i loro nomi per evitare ritorsioni ai familiari in Siria. I ragazzi e gli uomini fuggiti dalla guerra civile vengono considerati disertori dal governo di Damasco. Per questo i parenti in Europa hanno chiesto che per ora non siano divulgate nemmeno le identità né le foto dei sopravvissuti, dei morti o dei dispersi.

Salgono così a due i pescherecci carichi di profughi affondati dai militari di Tripoli nel giro di poche ore. Dell’altra strage, l’unica conosciuta finora, l’Espresso ha raccolto ulteriori dettagli grazie ai sopravvissuti soccorsi dalla Marina militare italiana e da quella maltese. Davanti alla costa nordafricana l’11 ottobre, una settimana dopo la strage dei 365 passeggeri, quasi tutti eritrei, annegati a poche centinaia di metri da Lampedusa, è in corso un’operazione anti immigrati. La mattina di quel venerdì, tra le 7 e le 8, una motovedetta libica raggiunge un vecchio peschereccio con 480 persone, un centinaio di bambini, tantissime donne. I militari libici sparano raffiche di mitra. Prima in aria. Poi contro il carico umano.

I sopravvissuti dichiarano che un papà e suo figlio sono stati uccisi così. Altri due passeggeri sono feriti e muoiono annegati nel naufragio. Nulla si sa degli eventuali morti e feriti nella stiva. I libici mirano infatti allo scafo. I proiettili di grosso calibro lo forano in più punti. È a questo punto che i profughi ammassati sul ponte sentono salire le grida da sotto i loro piedi e si accorgono per la prima volta di altri passeggeri. Sono gli africani, nigeriani e ciadiani, chiusi a chiave dai trafficanti nel fondo del peschereccio. Erano già a bordo quando, davanti alle spiagge di Al Zuwarah, non lontano dal confine con la Tunisia, i siriani sono stati portati con un gommone e fatti salire sul barcone che li attendeva al largo.

Le distribuzione dei posti viene raccontata così. I cento africani chiusi a chiave nella stiva a prua. Duecentottanta siriani, soprattutto le famiglie con mamme, papà e un centinaio di bambini, pigiati nelle varie camere centrali e sul ponte principale. Altri cento passeggeri sulle parti più alte dell’imbarcazione. La provenienza degli africani è confermata da alcuni siriani che durante il viaggio riescono a comunicare con loro attraverso le porte chiuse.

Dopo le raffiche di mitra, la motovedetta libica gira intorno al vecchio peschereccio mentre i militari calano in acqua una lunga corda. Contano così di stringerla intorno allo scafo e bloccare l’elica, lasciando poi i profughi alla deriva. Fatto questo, la nave libica vira e ritorna verso la costa. La corda però si allontana da sola sospinta dalle onde e il peschereccio continua la sua navigazione verso Nord.

“Da quel momento, il loro viaggio prosegue per altre otto ore”, rivela Ammar, operaio di Rennes, in Francia, passaporto francese e origini tunisine. Ammar da giorni sta raccogliendo notizie. Ha parlato con poliziotti e sopravvissuti siriani a Malta e in Italia. Sta cercando informazioni su un ragazzo tunisino disperso, Aymen Ben Jeddo, 21 anni, di Mahdia, città sulla costa. “Mi ha chiamato suo padre chiedendo aiuto”, racconta Ammar: “Loro per venire in Europa hanno bisogno del visto e dovrebbero aspettare settimane. Hanno chiesto a me, che ho il passaporto francese. Il loro ragazzo era andato in Libia con l’intenzione di salire su una barca per l’Italia. Sanno che è partito. Ma non ha più telefonato. Potrebbe essersi imbarcato con i siriani. Nessuno sa nulla di lui, nessuno ricorda di averlo incontrato. Penso che sia morto, ma non ho il coraggio di dirlo a suo padre”.

Dopo otto ore di navigazione precaria, il peschereccio arriva al punto a 60 miglia a Sud di Lampedusa. I sopravvissuti raccontano che a bordo cercano di tappare le falle con stracci e teli di plastica. Anche la stiva a prua con gli africani ormai è allagata. Loro gridano. Ma gli scafisti impediscono che sia aperta o forse non hanno nemmeno la chiave per liberare la catena. Là sotto il livello dell’acqua sempre più alto blocca la pompa di sentina che ormai non riusciva più a svuotare il fondo dello scafo. Alcuni passeggeri si passano i secchi che trovano a bordo. Sul ponte principale chiamano un medico. Se ne presentano sei, tutti siriani in fuga con le loro famiglie, i loro bambini. Una ragazza ha le doglie. La fanno partorire.

I sopravvissuti raccontano che si spegne il motore, ormai completamente sommerso. Uno scafista o qualcuno che tutti pensano sia lo scafista prende il telefono satellitare e chiede a un siriano che parla inglese di chiamare. È il numero di soccorso italiano. Dicono che dall’Italia abbiano chiesto la posizione indicata dal Gps e abbiano risposto che avrebbero fatto arrivare i soccorsi da Malta. Dal peschereccio chiamano anche Malta. Sul punto arriva per primo un aereo della Guardia costiera maltese. Vengono dirottate le navi militari. Da Lampedusa parte un pattugliatore della Guardia di finanza che per 60 miglia mantiene la velocità a 40 nodi, più di settanta chilometri all’ora, lo scafo per metà fuori dall’acqua, il motore al limite della rottura. Ogni minuto perso sono persone in più che annegano.

Tra le quattro e le cinque del pomeriggio il livello del mare lambisce il ponte del peschereccio. All’acqua che entra dai buchi aperti nello scafo dalle raffiche di mitra, si aggiungono le onde che ormai scavalcano il bordo. Da sotto, gli africani gridano disperati. Il bambino è nato. La ragazza la vedono sfinita. Ma il neonato piange, sembra stia bene. “I siriani che ho incontrato a Malta mi hanno detto che quel bambino non ha vissuto più di dieci minuti, forse meno”, dice Ammar: “Quando l’acqua è arrivata sul ponte, il peschereccio è colato a picco in tre secondi. Mi hanno detto proprio così, che è andato giù velocissimo. Uno, due, tre ed era già sparito tra le onde con i bambini e le donne e gli africani chiusi nella stiva. Se vanno a cercarli in fondo al mare, adesso li trovano lì”.

http://espresso.repubblica.it/attualita/2013/10/21/news/lampedusa-la-strage-senza-fine-c-e-un-altro-barcone-affondato-1.138324

Lampedusa, la strage senza fine
c’è un altro barcone affondato

L’11 ottobre scorso sono stati due i pescherecci affondati dalla motovedette libiche. E il conteggio delle vittime accertate è molto più grave di quanto comunicato fino ad ora. Il video dei superstiti
di Fabrizio Gatti

Lampedusa, la strage senza fine<br /><br /> c'è un altro barcone affondato<br /><br />

Sono due i pescherecci carichi di profughi affondati dalle motovedette libiche l’11 ottobre. Del primo barcone colato a picco a 60 miglia a Sud di Lampedusa, l’unico di cui si sapeva finora, l’Espresso ha aggiornato il conto delle vittime, raccogliendo le testimonianze dei sopravvissuti siriani arrivati in Sicilia: circa 480 persone a bordo, 212 recuperate, almeno 268 i morti, tra cui sessanta bambini dei cento partiti con i loro genitori da una spiaggia vicino ad Al Zuwarah, in Libia. Del secondo naufragio, hanno parlato altri siriani soccorsi in mare nei giorni successivi e ora in Italia: il peschereccio, con almeno 400 passeggeri, quasi tutte famiglie in fuga dalla Siria, è stato colpito dalle raffiche di mitra e si è rovesciato al largo della costa nordafricana. Ancora non è possibile sapere quanti siano i morti e i sopravvissuti. E forse non si sapranno mai.Di questo nuovo naufragio, una sigla che si firma “Gruppo di lavoro per i palestinesi in Siria” ha diffuso un breve video girato con un telefonino dal ponte di una motovedetta, probabilmente libica. Le immagini sono accompagnate dalla scritta in arabo: “Video della nave salpata dalla Libia l’11 ottobre 2013 e affondata nel Mediterraneo con circa 400 passeggeri”. Nelle riprese si vedono molte persone ancora sul grosso peschereccio nel momento in cui si rovescia. Altre finite in mare vengono soccorse da una piccola barca a motore, forse una lancia messa in acqua dalla nave militare. Alcuni siriani arrivati a Lampedusa e in Sicilia dopo l’11 ottobre raccontano che quella mattina, non lontano dalla costa, i libici hanno sparato raffiche di mitra a un grosso peschereccio su cui i trafficanti avevano ammassato almeno 400 persone. Colpita sui fianchi e al motore, l’imbarcazione si è inclinata di quarantacinque gradi sul lato destro e nel giro di pochi secondi si è rovesciata. Alla fine è affondata.

Un altro naufragio con decine di morti e dispersi ha interessato un barcone con almeno 400 i siriani a bordo. Secondo i testimoni arrivati in Sicilia il peschereccio sarebbe colato a picco dopo le raffiche di mitra di una motovedetta libica. (fonte: Gruppo di lavoro per i palestinesi in Siria)

[hier das Video des sinkenden Schiffs, auf der italienischen Website]

I militari libici avrebbero soccorso e riportato in Libia molti profughi. Gli stranieri sorpresi a emigrare illegalmente, anche se si tratta di famiglie con bambini, vengono arrestati e rinchiusi in carcere. Per essere liberati devono raccogliere denaro attraverso i familiari in Europa o in America e pagare tremila dollari ciascuno. Una volta saldato il debito, i profughi non sono liberi ma vengono riconsegnati ai trafficanti. Le persone, comprese donne e bambini, sono suddivise per nazionalità e ammassate in capannoni da dove è impossibile uscire: se non pagando il nuovo costo di un viaggio verso l’Italia, dai 1.600 ai 3.000 dollari. Questo racconta chi è arrivato vivo a Lampedusa o in Sicilia.

Non è stato possibile verificare in Libia la provenienza del video su questo secondo naufragio. Le varie testimonianze comunque coincidono. I siriani, che hanno rivelato la nuova tragedia agli operatori di alcune organizzazioni umanitarie, hanno chiesto che non siano rivelati i loro nomi per evitare ritorsioni ai familiari in Siria. I ragazzi e gli uomini fuggiti dalla guerra civile vengono considerati disertori dal governo di Damasco. Per questo i parenti in Europa hanno chiesto che per ora non siano divulgate nemmeno le identità né le foto dei sopravvissuti, dei morti o dei dispersi.

Salgono così a due i pescherecci carichi di profughi affondati dai militari di Tripoli nel giro di poche ore. Dell’altra strage, l’unica conosciuta finora, l’Espresso ha raccolto ulteriori dettagli grazie ai sopravvissuti soccorsi dalla Marina militare italiana e da quella maltese. Davanti alla costa nordafricana l’11 ottobre, una settimana dopo la strage dei 365 passeggeri, quasi tutti eritrei, annegati a poche centinaia di metri da Lampedusa, è in corso un’operazione anti immigrati. La mattina di quel venerdì, tra le 7 e le 8, una motovedetta libica raggiunge un vecchio peschereccio con 480 persone, un centinaio di bambini, tantissime donne. I militari libici sparano raffiche di mitra. Prima in aria. Poi contro il carico umano.

I sopravvissuti dichiarano che un papà e suo figlio sono stati uccisi così. Altri due passeggeri sono feriti e muoiono annegati nel naufragio. Nulla si sa degli eventuali morti e feriti nella stiva. I libici mirano infatti allo scafo. I proiettili di grosso calibro lo forano in più punti. È a questo punto che i profughi ammassati sul ponte sentono salire le grida da sotto i loro piedi e si accorgono per la prima volta di altri passeggeri. Sono gli africani, nigeriani e ciadiani, chiusi a chiave dai trafficanti nel fondo del peschereccio. Erano già a bordo quando, davanti alle spiagge di Al Zuwarah, non lontano dal confine con la Tunisia, i siriani sono stati portati con un gommone e fatti salire sul barcone che li attendeva al largo.

Le distribuzione dei posti viene raccontata così. I cento africani chiusi a chiave nella stiva a prua. Duecentottanta siriani, soprattutto le famiglie con mamme, papà e un centinaio di bambini, pigiati nelle varie camere centrali e sul ponte principale. Altri cento passeggeri sulle parti più alte dell’imbarcazione. La provenienza degli africani è confermata da alcuni siriani che durante il viaggio riescono a comunicare con loro attraverso le porte chiuse.

Dopo le raffiche di mitra, la motovedetta libica gira intorno al vecchio peschereccio mentre i militari calano in acqua una lunga corda. Contano così di stringerla intorno allo scafo e bloccare l’elica, lasciando poi i profughi alla deriva. Fatto questo, la nave libica vira e ritorna verso la costa. La corda però si allontana da sola sospinta dalle onde e il peschereccio continua la sua navigazione verso Nord.

“Da quel momento, il loro viaggio prosegue per altre otto ore”, rivela Ammar, operaio di Rennes, in Francia, passaporto francese e origini tunisine. Ammar da giorni sta raccogliendo notizie. Ha parlato con poliziotti e sopravvissuti siriani a Malta e in Italia. Sta cercando informazioni su un ragazzo tunisino disperso, Aymen Ben Jeddo, 21 anni, di Mahdia, città sulla costa. “Mi ha chiamato suo padre chiedendo aiuto”, racconta Ammar: “Loro per venire in Europa hanno bisogno del visto e dovrebbero aspettare settimane. Hanno chiesto a me, che ho il passaporto francese. Il loro ragazzo era andato in Libia con l’intenzione di salire su una barca per l’Italia. Sanno che è partito. Ma non ha più telefonato. Potrebbe essersi imbarcato con i siriani. Nessuno sa nulla di lui, nessuno ricorda di averlo incontrato. Penso che sia morto, ma non ho il coraggio di dirlo a suo padre”.

Dopo otto ore di navigazione precaria, il peschereccio arriva al punto a 60 miglia a Sud di Lampedusa. I sopravvissuti raccontano che a bordo cercano di tappare le falle con stracci e teli di plastica. Anche la stiva a prua con gli africani ormai è allagata. Loro gridano. Ma gli scafisti impediscono che sia aperta o forse non hanno nemmeno la chiave per liberare la catena. Là sotto il livello dell’acqua sempre più alto blocca la pompa di sentina che ormai non riusciva più a svuotare il fondo dello scafo. Alcuni passeggeri si passano i secchi che trovano a bordo. Sul ponte principale chiamano un medico. Se ne presentano sei, tutti siriani in fuga con le loro famiglie, i loro bambini. Una ragazza ha le doglie. La fanno partorire.

I sopravvissuti raccontano che si spegne il motore, ormai completamente sommerso. Uno scafista o qualcuno che tutti pensano sia lo scafista prende il telefono satellitare e chiede a un siriano che parla inglese di chiamare. È il numero di soccorso italiano. Dicono che dall’Italia abbiano chiesto la posizione indicata dal Gps e abbiano risposto che avrebbero fatto arrivare i soccorsi da Malta. Dal peschereccio chiamano anche Malta. Sul punto arriva per primo un aereo della Guardia costiera maltese. Vengono dirottate le navi militari. Da Lampedusa parte un pattugliatore della Guardia di finanza che per 60 miglia mantiene la velocità a 40 nodi, più di settanta chilometri all’ora, lo scafo per metà fuori dall’acqua, il motore al limite della rottura. Ogni minuto perso sono persone in più che annegano.

Tra le quattro e le cinque del pomeriggio il livello del mare lambisce il ponte del peschereccio. All’acqua che entra dai buchi aperti nello scafo dalle raffiche di mitra, si aggiungono le onde che ormai scavalcano il bordo. Da sotto, gli africani gridano disperati. Il bambino è nato. La ragazza la vedono sfinita. Ma il neonato piange, sembra stia bene. “I siriani che ho incontrato a Malta mi hanno detto che quel bambino non ha vissuto più di dieci minuti, forse meno”, dice Ammar: “Quando l’acqua è arrivata sul ponte, il peschereccio è colato a picco in tre secondi. Mi hanno detto proprio così, che è andato giù velocissimo. Uno, due, tre ed era già sparito tra le onde con i bambini e le donne e gli africani chiusi nella stiva. Se vanno a cercarli in fondo al mare, adesso li trovano lì”

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